Si può chiedere: quando si
parla generalmente del sisma del 1915? Se ne tratta per abitudine, ogni 13
gennaio; noi c’imbestialiamo quando chi subisce prima una calamità naturale e
poi la lentezza nella ricostruzione, si lamenta con le istituzioni centrali e
indichiamo un pugno di baracche asismiche ancora in uso dopo quasi un secolo,
nella Marsica. Mi capita d’accennare all’«eredità» del terremoto nel caso di
qualche trasformazione architettonica immaginata o praticata con disinvoltura, dalle
mie parti.
Quanti libri sono stati
scritti sul nostro «terremoto»? Potrebbero essercene almeno quattro o cinque
viste le generazioni che si sono succedute e invece...
Un saggio è solo la via
migliore per comprendere un fatto storico importante o meno: si può ricavare
un’idea decente di un avvenimento anche attraverso un romanzo, un’opera
teatrale, una canzone ecc. Mancano anche nel nostro caso oggetti come:
racconto, sequenza o documentario, poesia, fotografia e quadro che sparga almeno
un barlume sul Novecento. Eppure, l’arte è un modo per aprire gli occhi alle
persone. (Preferisco glissare sul capitolo: Intellettuali, critici di qualcosa,
«eccellenze»).
Purtroppo, quanti sono stati
messi nella condizione di speculare, ragionare, scrivere e divulgare sui fatti
del 1915 e molto altro, si sono tenuti ben lontano dal compierlo e io, mi
riferisco all’intellighenzia locale:
decine di personaggi cui sono state intitolate piazze, slarghi, strade, aule,
premi. Si tratta di persone che anziché usare il pensiero, agire come
sentinella e indicare una direzione di marcia ai marsicani, hanno invece
ripiegato sulla contemplazione e la ripetizione a scala locale delle visioni
agro-pastorali di F.P. Michetti e G. D’Annunzio: situazioni riferibili a un
mondo tramontato agli inizi dell’Ottocento, sono state stese a mo’ di trapunta
sull’incombente modernità. (Le raffigurazioni della campagna fucense erano un
tripudio di colori, vitalità e natura ancora negli anni Settanta – e seguenti
purtroppo –, quando erano ben visibili gli effetti dello sviluppo economico,
dell’impiego contemporaneo della chimica in agricoltura e dell’eliminazione
d’alberi e siepi).
Sembra strano perciò, che
si distingua tra paese «vecchio» e «nuovo», che la pianta della maggioranza dei
centri fucensi, pare progettata almeno dopo il prosciugamento del lago (1878), che
dopo la dura lezione del sisma si sia talvolta continuato a costruire grappoli
di abitazioni attaccate le une alle altre, come nel (nostro) Settecento. Ci
siamo sorpresi ovviamente, quando di recente la Regione ci ha mostrato lo stato
un po’ inquietante delle nostre acque (superficiali, sotterranee): si saranno
inquinate di colpo?
Che cosa ha elaborato –
d’interessante o meno – ciò che è stata designata come l’intellighenzia locale, negli ultimi 60-70 anni? Penso che bisognerà
sgomberare anche questo tipo di macerie.
Confido nella buona volontà
di qualche giovane nell’intervallo che ci separa dal prossimo gennaio. (Eppure,
Ignazio Silone era partito con il piede giusto a proposito del terremoto). (Il Martello del Fucino, 13)
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