giovedì 28 maggio 2015

NC


Tre giorni fa, è uscito: Nuove cancellazioni, lo spettacolo del Centenario del terremoto. È un libretto di frammenti su come i compaesani, hanno vissuto i primi tre mesi del 2015.
C’è stata una sorta di cambio di «formazione» nella produzione rispetto al primo, sul terremoto (Avezzano-Celano-Luco dei Marsi-Pescina): sono riuscito anche questa volta a unire ciò che qualche comune si è divertito – almeno lo spero – a dividere.
È in vendita al solito posto (Vieniviaconme).
Non trattandosi di un giallo, posso trascrivere con comodo il finale.
«La mattina del 13 gennaio 2015 è stata generalmente “una data del calendario”, come altre. C’è gente che si è ritrovata – prima delle 8 – in piazza del Risorgimento; un paio a piazza san Bartolomeo, altri sono tornati nel paese dei nonni. A messa.
Nessuno aveva loro imposto o consigliato di comportarsi in tal modo. È bene raccontarlo».

lunedì 25 maggio 2015

Già dieci


King of May) Lo vedevi sfilare veloce, sempre brioso e ben vestito, con il suo aspetto giovanile e una cartella di disegni sotto il braccio; negli ultimi tempi si aggirava per la città con un bastone: «come un povero vecchio», ripeteva.
È stato l’unico artista del luogo a insegnarmi qualcosa. Attraverso la sua esperienza, ho capito che l’arte è una faccenda quotidiana come tante altre; bisognava lavorare tutti i giorni, a orario fisso, come Matisse e Wahrol.
Mi ha anche insegnato che l’arte è un’attività solitaria, che può portare a vivere da soli. La sua propensione all’auto-ironia, così poco avezzanese, guastava il rapporto con gli altri.
Da artista legato al teatro, possedeva un’ottima tecnica, disegnava con scioltezza e riusciva a lavorare su superfici diverse, a trattare i materiali più disparati. Era una persona abbastanza colta e poteva vantare alcuni ottimi incontri avuti in gioventù.
Durante l’esistenza non ha legato con l’ambiente della critica d’arte, del mercato, degli altri «colleghi»; la sua città ha preso ben presto a ignorarlo. La sua produzione è dispersa presso decine d’abitazioni, nessuno se n’è mai curato. Conservo di lui una stampa eseguita con un sistema, al tempo stesso, ingegnoso e casereccio.
Penso di essere stata, per molti anni, l’unica persona a mettere i piedi dentro casa sua. […] (AvezzanoBlu, febbraio 2007).

venerdì 22 maggio 2015

Amplero ieri e oggi 5


Non possedendo materiali di prima mano, ho qualche remora a scrivere sulle undici «idee progettuali» dell’Autorità di bacino Liri-Garigliano-Volturno (M. Sbardella, Irrigazione del Fucino, 11 progetti in lista d’attesa”, in «TerreMarsicane» 7 aprile 2015).
Aggiungo qualche riflessione ma provo prima a spiegare perché è facile iscriverli nella vicenda «Amplero». È centrale nella mia lettura la captazione delle acque del Giovenco – non dell’invaso finale –, basta perciò scorrere l’elenco dei progetti per registrare la ricorrenza di tale corso d’acqua.
È stato facile a suo tempo, ironizzare nel Web sull’alto numero delle proposte. Nella vita quotidiana capita anche a me di dover far scegliere a qualcuno tra le mie elaborazioni: come mi comporto? È prassi consolidata nel mondo del lavoro presentare tre proposte di cui una è quella che vogliamo effettivamente portare avanti – migliorandola, adattandola casomai –, un’altra non è certo all’altezza della precedente mentre la terza supera appena il livello della decenza. Gli stessi tecnici fanno capire che la prima idea avrebbe dei problemi a passare perché produrrebbe – tra l’altro – un impatto «notevole sul fronte paesaggistico (una diga alta 35 m in area parco)». I progetti 9 e 10, invece produrrebbero delle «perdite» economiche rispettivamente di 44 e 34 milioni di euro. Un altro paio di proposte ricorda da vicino – si fa tanto per dire – la vecchia idea dell’Ersa. Tale numero dipenderà forse dalla cosiddetta progettazione partecipata che ha coinvolto molti – non tutti – stakeholder (portatori d’interesse). C’è da chiedersi come cotanto metodo democratico, abbia potuto produrre anche le cinque idee appena citate.
Com’è cambiato «Amplero» rispetto agli anni Ottanta? È divenuto una questione meno tecnica e più politica – nel senso deteriore del termine –, nonostante il coinvolgimento di un’Autorità di bacino, secondo me.
L’ampia consultazione con gli stakeholder, è una trovata da geologi, agricoltori, ingegneri idraulici o da politici? (Tu puoi mettere fuori gioco l’ipotesi di un progettista con una nuova teoria o una tecnologia in via di sperimentazione, come fai a battere la decisione di un amministratore locale?).
Il rapporto tra chi forgiava l’opinione pubblica e il mondo politico, è rimasto all’incirca uguale e ai nostri giorni ci pensano più che altro i social network a veicolare le idee dei leader. Nessuno avrebbe però scritto trent’anni e passa fa che nel mazzo delle proposte, c’è quella giusta: «per traghettare il comparto agricolo fucense nel terzo millennio», nemmeno definire un’idea progettuale come «opera rivoluzionaria che risolverà i problemi di irrigazione del Fucino» (Irrigazione nel Fucino, domani il primo incontro per l’innovativo progetto da realizzare, in «MarsicaLive» 19 novembre 2013). Non è difficile immaginare come imposteranno la questione, i mass media – in tempi di populismo galoppante –, una volta scelta dalla Regione l’ipotesi progettuale ritenuta migliore. Si seguirà con buona probabilità, l’usato copione PowerCrop: noi abbiamo ottenuto il malloppo e non dobbiamo farcelo scappare; nel nostro caso: «99.5 milioni in stand-by dal lontano 2001». (Da impiegare «prima che quel tesoretto prenda altre strade»).
Permane pertanto un perverso intreccio di rapporti tra partiti, imprese, associazioni di categoria e sindacati anche se meno evidente rispetto al passato.
C’è stata più partecipazione «popolare» nell’indirizzare le proposte progettuali, ma essa è servita anche a rendere omogenei e compattare interessi disparati, forse contrapposti e a limitare eventuali contestazioni al progetto.
Il progetto dell’Ersa (1980-81) fu criticato da chi chiedeva una maggior conoscenza della situazione locale, da chi reclamava più scienza in fase di progettazione; esso sembrava sorpassato nella sua concezione in quel momento. (Poggiava su solide basi in realtà – «franco di coltivazione», tra l’altro. Si aveva l’impressione che sconfiggere un progetto potenzialmente dannoso equivaleva ad avere un’idea più avanzata, migliore in ogni modo; si pensava – non so quanto ingenuamente – che il mondo funzionasse in quella maniera).
Non ho un’idea dei singoli undici progetti né se esistono i loro esecutivi, ma spero vivamente che rappresentare i nostri corsi d’acqua non sia rimasta una questione meramente idraulica; i fiumi funzionano in modo più complesso di un liquido che si muove in un tubo.
È importante che in quest’occasione non sia alzata una sola briglia su un fiume, nemmeno alta un metro perché se non lo studio almeno l’esperienza degli ultimi decenni insegna a noi italiani che dopo uno sbarramento su un corso d’acqua giungono irrimediabilmente – dopo qualche tempo – le frane e le erosioni.
(Ultime notizie. Gli acquedotti abruzzesi registrano una perdita media del 53%, stando a un dossier dell’Osservatorio di Cittadinanza Attiva – marzo 2015).
In fine. Perché aspettare (almeno) trentacinque anni, se un intervento del genere era tanto importante e urgente per l’agricoltura, l’industria e le popolazioni fucensi? (5/5, Il Martello del Fucino, 4 2015)

giovedì 21 maggio 2015

Amplero ieri e oggi 4


M’interessava relativamente l’impatto ambientale dell’invaso ad Amplero o altrove, quello delle varie vasche di raccolta e di qualche chilometro di tubature da costruire a una certa quota: io pensavo soprattutto all’opera di presa. (Dove, come s’intende prelevare l’acqua?).
(Un’altra parentesi). Non è un caso se si protestava a Pescina e lungo il corso del fiume ben lontani dall’intervento supposto principale, che ha attribuito il nome alla lunga vicenda. È comprensibile anche il disappunto ad Avezzano – quattro gatti, in realtà – e il silenzio dei trasaccani, dei collelonghesi. Chi ha raccolto la voce della valle del Giovenco? Chi ha provato a dare una forma, a incanalare quella protesta? Soprattutto, perché protestavano? Un altro tipo di domanda, che cosa era successo o, stava in realtà per accadere? È mancato in realtà una parola, una rappresentazione, un discorso per definire quella situazione. Spettava alla politica e a quelli che erano considerati gli intellettuali locali, impostare un’analisi e suggerire un percorso. I politicanti del tempo si erano generalmente rinchiusi nel mutismo perché un’opera del genere stava bene a tutti, preferisco sorvolare sugli intellettuali fucensi (cosiddetti, sedicenti). Erano davvero una novità manifestazioni del genere? (Cfr.: M. Armiero, Le montagne della patria, 2013, I, 3).
Riprendiamo. Mi preoccupavo dei riflessi di un’opera pubblica sul Giovenco e la valle che esso ha scavato nei millenni. Il vecchio progetto prevedeva sul suo corso una «traversa» alta otto metri da cui attingere l’acqua, «a quota 928 m s.m.».
(Per intendersi). Capita di leggere nei mass media circa la «manutenzione» di un corso d’acqua; domanda: perché la fanno? Si recuperano da un fiume, frigoriferi, tapparelle, lavatrici, contenitori vari, lavandini e anche materiali biodegradabili come rami e alberi perché rallentano o impediscono il normale flusso di elementi litoidi (sassi, ciottoli, sabbie): oggetti certo meno ingombranti di un qualsiasi tipo di sbarramento artificiale – che non può essere rimosso, tra l’altro. Ho scritto: «Manomettere il letto di un fiume con briglie, alvei o sponde di cemento, provoca a ripetizione frane e smottamenti “a monte” e allagamenti “a valle”» (Il Martello del Fucino 5, 2014). Manomettere, vuol dire provocare uno squilibrio in un sistema per sé equilibrato – come un corso d’acqua. Il fiume in tal caso cerca un nuovo equilibrio proprio attraverso le frane degli argini e le esondazioni. È arduo calcolare – nel nostro caso – l’impatto nel corso del fiume superiore all’opera mentre è più semplice immaginare, ciò che può succedere nella parte inferiore – nel medio e lungo periodo. C’entra poco anche la classificazione della zona d’intervento (parco naturale nazionale o regionale, zona sismica, riserva naturale, sito d’interesse comunitario, fascia di protezione esterna, sito archeologico, eccetera): è saggio evitare opere del genere lungo il corso di un fiume. (4/5)

mercoledì 20 maggio 2015

Amplero ieri e oggi 3


Ho pubblicato sul mio blog l’anno passato – riveduto, corretto e adattato al lettore del Web – il miglior pezzo scritto sulla questione, da parte ambientalista ([s.f.], Amplero e dintorni in «Grünt!» 1983). Fu un articolo particolare perché scritto in un momento in cui l’ambientalismo stava cambiando pelle ma non solo. Fu preso in esame per la sua stesura un documento di progetto (Ersa, servizio agrario, Benefici economici derivanti dagli investimenti per l’invaso di Amplero, All. 4) e quasi sicuramente una relazione della Cassa del Mezzogiorno (All. 10/a). Ne propongo alcune parti salienti.
«Noi pensiamo che in casi come questo richiedere un surplus d’indagini non vuol dire assolutamente intralciare il decorso delle opere pubbliche […] ma serve a integrare la fase progettuale con la corretta valutazione di una variabile (quella ambientale) non di poco conto». Il progetto dell’Ersa (ex Ente Fucino, poi Arssa) aveva una sua coerenza.
Segue il primo passaggio definibile «trasversale». «la nascita di un bacino pone altrettanti problemi di natura ecologico-ambientale, poiché con questo intervento si passerà da un certo tipo di ecosistema (una dolina carsica con caratteristiche ben precise) a un altro costituito da un invaso d’acqua con delle connotazioni difficili da prevedere, vista la complessità delle modificazioni che intervengono nel passaggio da un ecosistema a un altro. In parole povere sono prevedibili cambiamenti del clima, della flora, della fauna, dell’assetto idrogeologico e non ultimi quelli concernenti le attività delle popolazioni viventi ai suoi margini. A tal proposito già dalla relazione sulle caratteristiche geologiche e idrogeologiche (relazione di fattibilità dell’Ersa) si può arguire che se è vero che il livello della falda si trova a 150 metri dal fondo della dolina e se è altrettanto vero che corrisponde proprio all’altezza delle cospicue sorgenti (nota della relazione) che sgorgano tra Trasacco e Ortucchio, visto che la valle [sarà] impermeabilizzata per la realizzazione del bacino e quindi non potrà assorbire più acqua nella quantità originaria, è facile prevedere una pesante ripercussione sulla falda in questione, tale da causare una notevole riduzione dell’attività delle sorgenti stesse».
Si denunciava anche «la mancanza totale di un’investigazione sulla situazione economica della Valle del Giovenco» e si alludeva all’analisi costi-benefici.
Questa parte dimostra per le questioni che pone, meno anni di quelli che ha effettivamente. (Non era ancora stato inventato il termine «sostenibile»). «A questo punto sorge dunque istintiva una domanda: tutta quest’acqua serve davvero? Oppure si può prefigurare per il futuro del Fucino una situazione sostanzialmente nuova che, rivedendo in maniera critica l’attuale assetto produttivo, dia delle prospettive più interessanti per l’agricoltura senza stravolgere ulteriormente in modo forse drammatico un ambiente già di per sé molto compromesso e senza soprattutto dar del tutto fondo a delle preziose risorse che negli anni a venire saranno sempre più rare e preziose?».
È stata sparsa nel pezzo anche dell’ironia in caso di sconfinamento nell’ecologia da parte dei vari tecnici, ma nella relazione per il finanziamento dell’opera è dichiarata la derivazione della stessa da «una gamma d’indagini geofisiche e geotecniche». Da studente che si era rivolto all’Ente Fucino in cerca di dati per gli esami di urbanistica, mi aveva infastidito più che deluso l’insistenza sulle emergenze dichiarate nella Piana: a quali inondazioni o piene ricorrenti ci si riferiva? (Io conoscevo in tal modo l’Ente, mentre in generale la gente definiva lo stesso: «Zitte e mmagna»). Nell’articolo citato, si partiva dall’esperienza del comune automobilista, motociclista o ciclista in transito per la Piana in alcuni periodi dell’anno: uno strato di terriccio derivante dai campi; quintali di terra fertile sprecata ogni anno. Era ripetibile all’infinito una situazione del genere? Nel progetto dell’Ersa troviamo invece: «l’abbassamento del franco di coltivazione su tutte le superfici coltivate in conseguenza delle asportazioni di notevoli quantitativi di terra operate in occasione della raccolta meccanica delle patate e delle bietole» (Gabriele De Marinis). (Da tenere a mente: «franco di coltivazione»). Ne tratto per dimostrare la consistenza delle argomentazioni di chi si trovava su fronti contrapposti. Io trovavo datata l’idea di quel progetto, mi ricordava alcuni interventi in Italia tra gli inizi del Novecento e gli anni Cinquanta. (È un po’ come dire che l’idea che sta dietro a Expo 2015 è nuova di zecca mentre invece, risale all’Ottocento).
Cito un altro brano di De Marinis abbastanza attuale nonostante la data della sua stesura; esso ci dà la cifra della sensibilità, della conoscenza minuziosa e dell’affezione riversata verso l’oggetto del proprio lavoro: «il verificarsi di onde improvvise e di breve durata, determinate dalle acque zenitali che affluiscono nel Fucino dalle vaste superfici rese impermeabili a seguito della realizzazione delle opere civili, industriali e viarie interessanti i vari centri abitati del bacino imbrifero». (Il manifesto Stop al consumo di territorio, risale al 2009). (3/5)