Ho
ironizzato più volte, in questo blog, sulla scelta d’intitolare l’asilo delle
mie parti a un esemplare di Ursus arctos
marsicanus. Chi aveva avuto quell’idea probabilmente salmodiava: Ce n’est qu’un début, continuons le combat! È andata proprio in quel
modo, per quello che sto scrivendo, negli ultimi mesi. (La sto tirando per le
lunghe anche perché molti sono tuttora stupiti per la mia posizione, al
riguardo).
Nella vicenda
che sto smontando, ricorre un paio di equazioni: albero = storia, albero =
identità. Prendo un paio di brani a caso, dallo stesso comunicato. «Piazza
del Mercato va tutelata come paesaggio culturale dal valore storico e
identitario che viene rappresentato proprio dalla presenza del filare arboreo
storico» e «i grandi alberi rimasti rappresentano la storia di una città», Conalpa
13 agosto 2019.
La storia d’Avezzano è perciò
rappresentata da alcuni vegetali.
Ammesso che sia vero, ma non lo è: come può un avezzanese digerire una cosa del
genere e poi addirittura raccontarla in giro ai quattro venti? Utilizzarla per
una campagna pubblicitaria? (Torino è in buona sostanza ignorata per la sua invidiabile
quantità di spazi verdi mentre per la Juventus e molto altro…)
Vado per
ordine. Non è messa proprio così la storia continentale, né quella locale: gli
alberi compaiono nella città europea, insieme ai marciapiedi, nel Settecento, ad
Avezzano due secoli più tardi –
nella ricostruzione seguita a un disastroso terremoto, altrimenti...
Raccontano
davvero la storia di una città, uno o più alberi, per di più, ornamentali? Rappresentano
poco o niente nel nostro caso perché la loro messa a dimora è successiva al tracciamento, alla
costruzione del nuovo centro direzionale. (Troviamo noi alberi nelle strade
della periferia, la parte di città che ha ripreso per prima a vivere dopo il citato terremoto? No). Dice invece molto della nostra storia recente la pianta
ottocentesca adottata nel Quadrilatero, l’asse municipio-stazione ferroviaria. (Qualcuno
obietterà: come la mettiamo con «Torlonia», le attività legate all’agricoltura,
le fabbriche e gli opifici prima del 1915?)
Prima di
tutto questo, vi è però almeno un
millennio di storia della città europea, da cui discende la forma dei nostri insediamenti. È stata
perciò giocata in modo dilettantesco la (loffia) carta dell’identitarismo in
questa vicenda. Mi spiego. Fu distrutto il mercato coperto, da un’amministrazione
comunale, decenni fa; era una struttura che separava – costituendola – piazza del
Mercato da una strada statale. È
quello un esempio clamoroso di storia
buttata alle ortiche senza rifletterci
minimamente, da parte degli avezzanesi. I compaesani furono quasi tutti contenti;
molti degli odierni «indignati» contro il taglio degli alberi – 1500 secondo Il Centro dello scorso 25 agosto –, furono
appagati da quello sventramento.
In questo
periodo mi trovo tra le mani un libro acquistato l’anno passato (V. Emiliani, Roma capitale malamata, 2018). Nel volume
sono citati degli sventramenti operati nella Capitale e raccontati da diversi
autori. La pletora di sedicenti «storici locali» e «cultori di storia locale»,
non è stata finora capace – a distanza di quasi quarant’anni e l’avvicendamento
di diversi sindaci –, di scrivere mezza parola su quella vergognosa vicenda. (Fa
tenerezza chi pubblica qualche vecchia fotografia in bianco e nero di quel posto).
Gli
antropologi raccomandano di non dimenticare che ogni identità, è una
costruzione.