(EE 2019,
1). Un’amica è stata chiamata – per via di una recente normativa – anche con il
cognome del marito (separato) al seggio: non l’ha presa bene, prevedibilmente.
Stiamo tornando «indietro» in Italia? Entra in ballo una concezione della
storia secondo cui, l’umanità progredisce
inesorabilmente, quotidianamente, impercettibilmente. Sempre avanti. È una
concezione che non sempre può essere applicata perché si rischia di prendere
abbagli. (Un semplice esempio). Un capo di stato che vieta il divorzio o nega
l’uguaglianza tra i sessi può allo
stesso tempo smanettare con il computer o altri aggeggi modernissimi,
comunicare con WhatsApp.
Ci siamo
arrivati – con quelli della mia età – con l’esperienza più che attraverso i
libri. Ricordo, molti anni fa, un paio d’iraniani che si allontanarono per tre
mesi dal nostro corso di composizione; giustificarono la loro assenza con un «C’era
la rivoluzione», quando tornarono a frequentare. Noi italiani – da occidentali
– soffocammo un risolino di sufficienza, vabbè. (Prima d’allora, ci aveva
pensato Pol Pot a spostare all’indietro un paio di secoli le lancette della
storia cambogiana). Una decina d’anni dopo sopraggiunse l’Ottantanove: grandi
speranze di democrazia e benessere da parte di tutti. Poi abbiamo, invece, visto
arricchimento, buone maniere per pochissimi e milioni di persone emigrate ai
quattro angoli della Terra per vivere decentemente. Prima che mettessimo – in
tanti – i piedi in Iraq, convivevano pacificamente diversi popoli e confessioni
religiose in quelle parti. Non è più così da anni, nonostante la cacciata di
Saddam. Tralascio le cosiddette primavere arabe.