domenica 31 gennaio 2016

Fuori sacco 2

Ho lasciato fuori un paio di cose anche dal pezzo precedente.
Avevano già dimostrato d’essere distratti al tempo della scoperta del rapporto tra Silone e l’OSS o dei finanziamenti alla rivista Tempo presente, numerosi marsicani – non ricordando male. Chi viveva da queste parti non poteva nemmeno ignorare l’accusa di «tradimento» (giusta, sbagliata) rivolta allo scrittore dai militanti comunisti locali risalente al tempo della sua uscita dal Pci – braccianti, operai, artigiani, a giudicare dall’elettorato di quel partito. (Per carità, non è più un problema dopo l’Ottantanove).

C’è la tendenza a considerare Ignazio Silone una «risorsa» per il «territorio» come se si trattasse di un biotopo, una varietà di pane, una pianta rara o un vecchio centro storico da sfruttare in senso turistico. (Ciò significa essenzialmente che non si possiede un’idea di sviluppo per il Fucino e la Marsica). È arduo ma può starci; bisogna però farsi due conti di quando in quando per avere un riscontro di tanto impegno (finanziario, intellettuale) profuso sullo scrittore nato a Pescina.

sabato 30 gennaio 2016

Statuine 2

È normale che un qualsiasi autore sia conosciuto dai suoi contemporanei e dai posteri, dentro e fuori dalla sua città, dal suo Paese e la sua produzione – tutta, in parte – può servire agli usi più disparati. M’interessa l’opera – giusto quella – di qualcuno a differenza dei suoi gusti culinari, di come si veste o la sua vacanza preferita. L’altra smisurata passione di John Cage era la micologia eppure a nessun critico musicale è finora balzato in mente di occuparsene: perché? Perché: 1) Cage era un compositore; 2) un critico compulsa gli spartiti e ascolta le incisioni o le registrazioni: si tratta di documenti. (Poiché siamo in tema di pentagrammi, è anche bene ricordare una definizione di Brian Eno: «“cultura” è tutto quanto non siamo obbligati a fare»).
Mi ha attirato perciò poco il lavoro di tipo storiografico di Dario Biocca e Mauro Canali su Silone, ma è da rispettare – non potrebbe essere diversamente. M’interessa ancor meno la presunta omosessualità dello scrittore, agitata da Renzo Paris. Storiografia o qualcosa di più leggero? Da parte di uno scrittore, uno storico, un critico letterario? Interessa soprattutto perché, tale circostanza?
C’è un gruppo di marsicani che ha preso ad appassionarsi allo scrittore nato a Pescina; si è trattato di un’operazione meritoria in ogni modo, in assenza di un’università o almeno una facoltà di lettere nella zona. Ciò ha però comportato, il non porsi questioni riguardanti i territori da delimitare ed esplorare, i programmi da attuare, le classificazioni, gli obiettivi da raggiungere e le linee metodologiche; si è prodotto un calderone in cui è facile sconfinare dalle proprie competenze e in grado di assorbire temi come Ignazio Silone, i cafoni – solo quelli di un secolo fa –, la cittadina di Pescina, Fucino e altro.
Tal esperienza ha prodotto tra l’altro anche una sorta d’immaginetta sacra e un mito. Nel costruire il «santino», sono stati impiegati i materiali più eterogenei: romanzi, interviste, viaggi, impegno politico, amicizie, scritti diversi, don Orione, «abruzzesità», rapporto con la fede, «coraggio e coerenza», adolescenza disagiata, eccetera. Il mito: «Silone è importante», «Perché è importante?», «Perché è Silone!». Ignazio Silone è naturalmente importante.
Sia il «santino» sia il mito, occultano i motivi per cui il pescinese è stato un autore presso una delle maggiori case editrici del suo tempo. (Nascondono le scarse indagini in tal senso ed è inutile sciorinare l’albo d’oro delle manifestazioni). Non sono state nemmeno rintracciate le cause del suo successo postumo; del perché se ne continua a parlare – ancora poco in verità –, ma se ne discute ancora dopo trentotto anni dalla sua scomparsa. (A ben rifletterci: perché fanno notizia solo le pubblicazioni che demoliscono in qualche modo alcuni aspetti marginali di Silone e non le ricerche legate alla sua opera letteraria?).
Perché ha colpito a suo tempo il citato studio (Biocca e Canali, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Luni Editrice 2000)? Perché ha rovinato alcune parti dell’idoletto polimaterico e multicolore che era stato fabbricato con cura. (Era comprensibile in simili frangenti la reazione dei parenti stretti e di qualche storico addentrato nella materia, ma non degli altri).
Ciò che resta di alcune persone sono solo le loro opere: davanti a un paio di tele di Jackson Pollock non ho pensato nemmeno lontanamente alla vita sregolata dell’artista statunitense, quando sfoglio Essere e tempo non corro con la mente alle (scarse e pessime) idee politiche di chi l’ha composto né alle persone che lo stesso autore mise seriamente nei guai durante gli anni Trenta. (2/2, Il Martello del Fucino 1 2016)

(Perdonate il ritardo, ovviamente. Riparto da Chrome).

domenica 17 gennaio 2016

Statuine 1


È saltata fuori la scorsa estate l’idea di scrivere qualcosa sull’argomento Silone. Silone o «Silone»? Né l’uno né l’altro; quel nome indica da noi un gruppo di persone che s’interessano allo scrittore nato a Pescina. Ci provo adesso secondo il punto di vista dell’autore, di uno che produce qualcosa (illustrazione, quadro, cartella, volume) e vi appone la propria firma.
Un’opera dell’ingegno diventa autonoma una volta licenziata, vive una vita propria talvolta imprevedibile: è il destino di un dipinto, un romanzo, un saggio, una poesia ma soprattutto un copione, una sceneggiatura. (Per non parlare di come può essere interpretato uno spartito, una volta piazzato sul leggio di un jazzista). Non solo. Ho pubblicato per un anniversario Dov’è la città? (2009). Si tratta di una serie di disegni ispirati – per così dire – dal brano musicale omonimo di Gianluigi Trovesi. Tre anni prima avevo invece ultimato una serie di acquerelli poi stampato sotto il titolo La terra e l’anima. È stato il primo lavoro dedicato al pubblicista ed esperto di vini Luigi Veronelli. (Risiedono perciò dentro tale discorso operazioni come il film Fontamara di Carlo Lizzani e la traduzione del Dies irae di Emilio Villa risalenti al 1980). Volendo spiegare un concetto simile a un ventenne, io mostrerei i dati del mio blog – quelli che mi seguono dalla Russia, dall’Indonesia perfino dalla Cina –, soprattutto chi fa schizzare i miei contatti o dei commenti ai miei post apparsi altrove, ma lui ribatterebbe tra l’annoiato e il divertito che da svariati anni ha un profilo su Facebook. (Aggiungerebbe con noncuranza che il blog è ormai un fossile dentro internet).
Tendo perciò a seguire di un siffatto autore: trasposizione teatrale o cinematografica, radio-dramma, graphic novel, ciclo pittorico, reading, eccetera. (Ho nominato una serie di prodotti nella cui realizzazione e nella cui analisi si può tralasciare – in certi limiti – la critica letteraria, la filologia. Il godimento stesso della nuova composizione offre una generosa mano in tal senso). (1/2)

giovedì 14 gennaio 2016

Fuori sacco


Non sono riuscito a infilare un paio di faccende locali, nell’ultima pubblicazione. Sembrano note di costume ma vale la pena di pubblicarle.
(Negli ultimi venti anni). Come si sputtana un’associazione culturale. Metti un gruppo di persone che lavora sulla musica, da qualche annetto. Arriva un sindaco che si dichiara disposto a tirar fuori dei quattrini per un concerto sotto qualche festività (Natale, Capodanno, Ferragosto); richiede anche musiche «adatte» all’occasione. Andando bene la manifestazione, nel senso: tutto esaurito, lo stesso sindaco procede con un’altra proposta simile (Epifania, Pasqua, Due giugno). Repertorio «adatto», anche in questo caso. L’associazione metterà da parte il suo programma e diverrà nel giro di qualche anno un’appendice dell’amministratore di turno ma guadagnerà in denaro e immagine: meno lavoro e più quattrini e notorietà nella propria zona. (L’amministratore locale può intercedere a livello regionale e nazionale per procurare altri fondi e contatti). La stessa associazione non si tirerà certo indietro se le capita di dover «allietare» qualche convegno – non più di dieci minuti e programma «adeguato».
(Negli ultimi dieci anni). Una particolare forma di colonizzazione. Vi sono dei marsicani che si sono trasferiti o sono figli di gente del posto che è andata via per lavoro. Capita che qualcuno di questi – nella città in cui abita –, impiega il proprio tempo libero in un’attività di tipo culturale (musica, teatro, cinema, danza, cabaret). Non li considera nessuno dove risiedono perché gli fanno ombra quelli che svolgono determinate attività professionalmente. (Ad Avezzano invece, professionisti e dilettanti sono almeno equiparati). Essi si rivolgono perciò al loro luogo d’origine ben sapendo che i marsicani non sono di bocca buona. Sono imperdibili i curriculum che fanno pubblicare dalle testate giornalistiche locali.
(In proposito. L’Abruzzo continua a perdere abitanti da tre anni e nella Marsica s’ignora sostanzialmente tale dato. È comprensibile da parte della politica, di chi amministra mentre non lo è per nulla da parte dei mezzi d’informazione).

mercoledì 13 gennaio 2016

TWD 3


Ai giovani marsicani interessa poco o niente il terremoto di cento anni fa? (Del resto invece?). Sono proprio le istituzioni con cui loro entrano in contatto alla loro età (scuola, università, sindacato) che non riescono a formarli e a integrarli nella società perché gli propongono valori e racconti estranei alla loro esperienza quotidiana; non c’è però nessuna «contestazione» al contrario dei miei tempi ma indifferenza, silenzio e probabilmente rancore. (Già, come la pensano i giovani d’oggi?). Tutto ciò è comprensibile da anni in Europa e nel Nord-America ma fino a un certo punto: una testata giornalistica dovrebbe evitare di pubblicare contemporaneamente l’ipotesi fantascientifica del sisma del 1915 dovuto al prosciugamento e l’intervista a un geologo; un’amministrazione comunale dovrebbe preservare il «lascito» della ricostruzione o almeno, i manufatti di pregio scampati alla furia del sisma. Si ristampano vecchi libri inutili già appena freschi di tipografia ignorando ciò che è prodotto negli ultimi decenni da personaggi qualificati: a che cosa serve ma soprattutto a chi? Tale ciarpame dovrebbe costituire l’immaginario dei marsicani nonostante gli errori, le ingenuità, le leggende, le lacune e gli strafalcioni. (Alcuni dei maggiori concertisti rinnegano di quando in quando le loro incisioni di venticinque, trent’anni prima eppure si tratta di punti di riferimento ormai consolidati per il collega più giovane, il critico musicale, l’allievo del Conservatorio e il comune appassionato di musica). Si confonde da noi perciò – spesso e volentieri – un volume con la letteratura, un frammento di coccio con l’archeologia, l’esercitazione scolastica con la pittura, un fortuito acquisto dal rigattiere con la storiografia, fare l’isterica su un paio d’assi di legno con il teatro, una nota editoriale di copertina con la critica letteraria: Joyce, Musil, Mann vale quanto il comune imbrattacarte del posto – ve ne sono numerosi. Tutto ciò non avvicina un giovane e allontana il laureato medio. (È facile che succeda questo in provincia: non ti guarda nessuno). Più di un politicante e di un pubblicista utilizza senza provare vergogna o almeno sentirsi ridicolo la locuzione «popolo Marso» applicandola ai cittadini del comprensorio. È encomiabile – in piccola parte – il tagliacozzano desideroso di difendere il proprio dialetto dalla globalizzazione: ci aveva in realtà già pensato la televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (del secolo scorso) a omogeneizzare, «romanizzare» il modo di parlare degli italiani. Non ha molto senso attaccare l’etichetta «avezzanese» al grammelot che si biascica in sparute occasioni: si tratta di una moneta fuori corso da un secolo. (Chi lo ammannisce ai concittadini, non costruisce identità, convivialità e socialità bensì esclusione – le «voci» dei giocattoli per infanti sono bi-lingue, da anni). Usiamo lo smartphone anche nella Marsica e perciò possiamo osservare ciò che avviene altrove nelle capitali politiche, economiche e culturali di mezzo mondo, ma restiamo invece ancorati alle pastoie di almeno mezzo secolo fa, una volta spento il dispositivo. Assistiamo perciò a una sorta di divisione: siamo globali, metropolitani con un cellulare in mano e locali, provinciali senza uno schermo nelle vicinanze.
La nostra proposta culturale non provoca dibattito né produce cultura o un briciolo di trasformazione; non si mangia ma nemmeno può essere utilizzata in alcun modo dalle persone e dalle nuove generazioni in particolare. (3/3, Territori in movimento 12 2015)