Ho pubblicato sul mio blog
l’anno passato – riveduto, corretto e adattato al lettore del Web – il miglior
pezzo scritto sulla questione, da parte ambientalista ([s.f.], Amplero e dintorni in «Grünt!» 1983). Fu
un articolo particolare perché scritto in un momento in cui l’ambientalismo
stava cambiando pelle ma non solo. Fu preso in esame per la sua stesura un
documento di progetto (Ersa, servizio agrario, Benefici economici derivanti dagli investimenti per l’invaso di Amplero,
All. 4) e quasi sicuramente una relazione della Cassa del Mezzogiorno (All. 10/a).
Ne propongo alcune parti salienti.
«Noi pensiamo che in casi
come questo richiedere un surplus d’indagini
non vuol dire assolutamente intralciare il decorso delle opere pubbliche […] ma
serve a integrare la fase progettuale con la corretta valutazione di una
variabile (quella ambientale) non di
poco conto». Il progetto dell’Ersa (ex Ente Fucino, poi Arssa) aveva una sua coerenza.
Segue il primo passaggio
definibile «trasversale». «la nascita di un bacino pone altrettanti problemi di
natura ecologico-ambientale, poiché con questo intervento si passerà da un
certo tipo di ecosistema (una dolina
carsica con caratteristiche ben precise) a un altro costituito da un invaso
d’acqua con delle connotazioni difficili da prevedere, vista la complessità
delle modificazioni che intervengono nel passaggio da un ecosistema a un altro.
In parole povere sono prevedibili cambiamenti del clima, della flora, della
fauna, dell’assetto idrogeologico e non ultimi quelli concernenti le attività
delle popolazioni viventi ai suoi margini. A tal proposito già dalla relazione sulle
caratteristiche geologiche e idrogeologiche (relazione di fattibilità dell’Ersa)
si può arguire che se è vero che il livello della falda si trova a 150 metri
dal fondo della dolina e se è altrettanto vero che corrisponde proprio
all’altezza delle cospicue sorgenti (nota della relazione) che sgorgano tra
Trasacco e Ortucchio, visto che la valle [sarà] impermeabilizzata per la
realizzazione del bacino e quindi non potrà assorbire più acqua nella quantità
originaria, è facile prevedere una pesante ripercussione sulla falda in
questione, tale da causare una notevole riduzione dell’attività
delle sorgenti stesse».
Si denunciava anche «la
mancanza totale di un’investigazione sulla
situazione economica della Valle del Giovenco» e si alludeva all’analisi
costi-benefici.
Questa parte dimostra per
le questioni che pone, meno anni di quelli che ha effettivamente. (Non era
ancora stato inventato il termine «sostenibile»). «A questo punto sorge
dunque istintiva una domanda: tutta quest’acqua serve davvero? Oppure si
può prefigurare per il futuro del Fucino una situazione sostanzialmente nuova
che, rivedendo in maniera critica l’attuale assetto produttivo, dia delle prospettive
più interessanti per l’agricoltura senza stravolgere ulteriormente in modo
forse drammatico un ambiente già di per sé molto compromesso e senza
soprattutto dar del tutto fondo a delle preziose risorse che negli anni a
venire saranno sempre più rare e preziose?».
È stata sparsa nel pezzo anche
dell’ironia in caso di sconfinamento nell’ecologia da parte dei vari tecnici,
ma nella relazione per il finanziamento dell’opera è dichiarata la derivazione
della stessa da «una gamma d’indagini geofisiche e geotecniche». Da studente
che si era rivolto all’Ente Fucino in cerca di dati per gli esami di
urbanistica, mi aveva infastidito più che deluso l’insistenza sulle emergenze dichiarate
nella Piana: a quali inondazioni o piene ricorrenti ci si riferiva? (Io conoscevo
in tal modo l’Ente, mentre in generale la gente definiva lo stesso: «Zitte e mmagna»). Nell’articolo citato,
si partiva dall’esperienza del comune automobilista, motociclista o ciclista in
transito per la Piana in alcuni periodi dell’anno: uno strato di terriccio
derivante dai campi; quintali di terra fertile sprecata ogni anno. Era
ripetibile all’infinito una situazione del genere? Nel progetto dell’Ersa
troviamo invece: «l’abbassamento del franco di coltivazione su tutte le
superfici coltivate in conseguenza delle asportazioni di notevoli quantitativi
di terra operate in occasione della raccolta meccanica delle patate e delle
bietole» (Gabriele De Marinis). (Da tenere a mente: «franco di coltivazione»). Ne
tratto per dimostrare la consistenza delle argomentazioni di chi si trovava su
fronti contrapposti. Io trovavo datata l’idea di quel progetto, mi ricordava
alcuni interventi in Italia tra gli inizi del Novecento e gli anni Cinquanta.
(È un po’ come dire che l’idea che sta dietro a Expo 2015 è nuova di zecca
mentre invece, risale all’Ottocento).
Cito un altro brano di De
Marinis abbastanza attuale nonostante la data della sua stesura; esso ci dà la
cifra della sensibilità, della conoscenza minuziosa e dell’affezione riversata
verso l’oggetto del proprio lavoro: «il verificarsi di onde improvvise e di
breve durata, determinate dalle acque zenitali che affluiscono nel Fucino dalle
vaste superfici rese impermeabili a seguito della realizzazione delle opere
civili, industriali e viarie interessanti i vari centri abitati del bacino
imbrifero». (Il manifesto Stop al consumo
di territorio, risale al 2009). (3/5)
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