mercoledì 20 maggio 2015

Amplero ieri e oggi 3


Ho pubblicato sul mio blog l’anno passato – riveduto, corretto e adattato al lettore del Web – il miglior pezzo scritto sulla questione, da parte ambientalista ([s.f.], Amplero e dintorni in «Grünt!» 1983). Fu un articolo particolare perché scritto in un momento in cui l’ambientalismo stava cambiando pelle ma non solo. Fu preso in esame per la sua stesura un documento di progetto (Ersa, servizio agrario, Benefici economici derivanti dagli investimenti per l’invaso di Amplero, All. 4) e quasi sicuramente una relazione della Cassa del Mezzogiorno (All. 10/a). Ne propongo alcune parti salienti.
«Noi pensiamo che in casi come questo richiedere un surplus d’indagini non vuol dire assolutamente intralciare il decorso delle opere pubbliche […] ma serve a integrare la fase progettuale con la corretta valutazione di una variabile (quella ambientale) non di poco conto». Il progetto dell’Ersa (ex Ente Fucino, poi Arssa) aveva una sua coerenza.
Segue il primo passaggio definibile «trasversale». «la nascita di un bacino pone altrettanti problemi di natura ecologico-ambientale, poiché con questo intervento si passerà da un certo tipo di ecosistema (una dolina carsica con caratteristiche ben precise) a un altro costituito da un invaso d’acqua con delle connotazioni difficili da prevedere, vista la complessità delle modificazioni che intervengono nel passaggio da un ecosistema a un altro. In parole povere sono prevedibili cambiamenti del clima, della flora, della fauna, dell’assetto idrogeologico e non ultimi quelli concernenti le attività delle popolazioni viventi ai suoi margini. A tal proposito già dalla relazione sulle caratteristiche geologiche e idrogeologiche (relazione di fattibilità dell’Ersa) si può arguire che se è vero che il livello della falda si trova a 150 metri dal fondo della dolina e se è altrettanto vero che corrisponde proprio all’altezza delle cospicue sorgenti (nota della relazione) che sgorgano tra Trasacco e Ortucchio, visto che la valle [sarà] impermeabilizzata per la realizzazione del bacino e quindi non potrà assorbire più acqua nella quantità originaria, è facile prevedere una pesante ripercussione sulla falda in questione, tale da causare una notevole riduzione dell’attività delle sorgenti stesse».
Si denunciava anche «la mancanza totale di un’investigazione sulla situazione economica della Valle del Giovenco» e si alludeva all’analisi costi-benefici.
Questa parte dimostra per le questioni che pone, meno anni di quelli che ha effettivamente. (Non era ancora stato inventato il termine «sostenibile»). «A questo punto sorge dunque istintiva una domanda: tutta quest’acqua serve davvero? Oppure si può prefigurare per il futuro del Fucino una situazione sostanzialmente nuova che, rivedendo in maniera critica l’attuale assetto produttivo, dia delle prospettive più interessanti per l’agricoltura senza stravolgere ulteriormente in modo forse drammatico un ambiente già di per sé molto compromesso e senza soprattutto dar del tutto fondo a delle preziose risorse che negli anni a venire saranno sempre più rare e preziose?».
È stata sparsa nel pezzo anche dell’ironia in caso di sconfinamento nell’ecologia da parte dei vari tecnici, ma nella relazione per il finanziamento dell’opera è dichiarata la derivazione della stessa da «una gamma d’indagini geofisiche e geotecniche». Da studente che si era rivolto all’Ente Fucino in cerca di dati per gli esami di urbanistica, mi aveva infastidito più che deluso l’insistenza sulle emergenze dichiarate nella Piana: a quali inondazioni o piene ricorrenti ci si riferiva? (Io conoscevo in tal modo l’Ente, mentre in generale la gente definiva lo stesso: «Zitte e mmagna»). Nell’articolo citato, si partiva dall’esperienza del comune automobilista, motociclista o ciclista in transito per la Piana in alcuni periodi dell’anno: uno strato di terriccio derivante dai campi; quintali di terra fertile sprecata ogni anno. Era ripetibile all’infinito una situazione del genere? Nel progetto dell’Ersa troviamo invece: «l’abbassamento del franco di coltivazione su tutte le superfici coltivate in conseguenza delle asportazioni di notevoli quantitativi di terra operate in occasione della raccolta meccanica delle patate e delle bietole» (Gabriele De Marinis). (Da tenere a mente: «franco di coltivazione»). Ne tratto per dimostrare la consistenza delle argomentazioni di chi si trovava su fronti contrapposti. Io trovavo datata l’idea di quel progetto, mi ricordava alcuni interventi in Italia tra gli inizi del Novecento e gli anni Cinquanta. (È un po’ come dire che l’idea che sta dietro a Expo 2015 è nuova di zecca mentre invece, risale all’Ottocento).
Cito un altro brano di De Marinis abbastanza attuale nonostante la data della sua stesura; esso ci dà la cifra della sensibilità, della conoscenza minuziosa e dell’affezione riversata verso l’oggetto del proprio lavoro: «il verificarsi di onde improvvise e di breve durata, determinate dalle acque zenitali che affluiscono nel Fucino dalle vaste superfici rese impermeabili a seguito della realizzazione delle opere civili, industriali e viarie interessanti i vari centri abitati del bacino imbrifero». (Il manifesto Stop al consumo di territorio, risale al 2009). (3/5)

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