M’interessava relativamente
l’impatto ambientale dell’invaso ad Amplero o altrove, quello delle varie
vasche di raccolta e di qualche chilometro di tubature da costruire a una certa
quota: io pensavo soprattutto all’opera
di presa. (Dove, come s’intende prelevare l’acqua?).
(Un’altra parentesi). Non è
un caso se si protestava a Pescina e lungo il corso del fiume ben lontani dall’intervento
supposto principale, che ha attribuito il nome alla lunga vicenda. È
comprensibile anche il disappunto ad Avezzano – quattro gatti, in realtà – e il
silenzio dei trasaccani, dei collelonghesi. Chi ha raccolto la voce della valle
del Giovenco? Chi ha provato a dare una forma, a incanalare quella protesta?
Soprattutto, perché protestavano? Un altro tipo di domanda, che cosa era
successo o, stava in realtà per accadere? È mancato in realtà una parola, una
rappresentazione, un discorso per definire quella situazione. Spettava alla
politica e a quelli che erano considerati gli intellettuali locali, impostare
un’analisi e suggerire un percorso. I politicanti del tempo si erano
generalmente rinchiusi nel mutismo perché un’opera del genere stava bene a
tutti, preferisco sorvolare sugli intellettuali fucensi (cosiddetti, sedicenti).
Erano davvero una novità manifestazioni del genere? (Cfr.: M. Armiero, Le montagne della patria, 2013, I, 3).
Riprendiamo. Mi preoccupavo
dei riflessi di un’opera pubblica sul
Giovenco e la valle che esso ha scavato nei millenni. Il vecchio progetto prevedeva
sul suo corso una «traversa» alta otto metri da cui attingere l’acqua, «a quota
928 m s.m.».
(Per intendersi). Capita di
leggere nei mass media circa la «manutenzione»
di un corso d’acqua; domanda: perché la fanno? Si recuperano da un fiume, frigoriferi,
tapparelle, lavatrici, contenitori vari, lavandini e anche materiali
biodegradabili come rami e alberi perché rallentano o impediscono il normale flusso
di elementi litoidi (sassi, ciottoli, sabbie): oggetti certo meno ingombranti
di un qualsiasi tipo di sbarramento artificiale – che non può essere rimosso,
tra l’altro. Ho scritto: «Manomettere il letto di un fiume con briglie, alvei o
sponde di cemento, provoca a ripetizione
frane e smottamenti “a monte” e allagamenti “a valle”» (Il Martello del Fucino 5, 2014). Manomettere, vuol dire provocare
uno squilibrio in un sistema per sé equilibrato – come un corso d’acqua. Il
fiume in tal caso cerca un nuovo equilibrio proprio attraverso le frane degli
argini e le esondazioni. È arduo calcolare – nel nostro caso – l’impatto nel
corso del fiume superiore all’opera mentre è più semplice immaginare, ciò che
può succedere nella parte inferiore – nel medio e lungo periodo. C’entra poco anche
la classificazione della zona d’intervento (parco naturale nazionale o
regionale, zona sismica, riserva naturale, sito d’interesse comunitario, fascia
di protezione esterna, sito archeologico, eccetera): è saggio evitare opere del
genere lungo il corso di un fiume. (4/5)
Nessun commento:
Posta un commento