(Ha avuto successo il
«post» del 20, ne propongo una versione lunga). L’ultima volta che l’ho visto è
stato il 27 giugno; c’incontrammo a cazzeggiare per un buon quarto d’ora davanti
alla BNL, mentre gran parte degli altri maschi era alle prese con il calcio in
tv. Ho conosciuto Domenico Mancinelli – lo posso nominare adesso – in un luglio
del 1969 o del 1970. Me lo trovai davanti per la prima volta tra la verzura e
gli alberi dentro il parco dell’Ente Fucino. Aveva un’aria riservata, timida; di
uno che si sentiva spaesato – bisogna aggiungerci l’esile corporatura di
quell’età. (Ricordo bene quella circostanza perché c’infilammo in un posto buio
sotterraneo che oggi è noto come «neviera dei Torlonia»). Ho perciò avuto un
atteggiamento protettivo nei suoi confronti, nei primi tempi: sono tanti tre
anni e rotti di differenza in quella fase della vita.
Ci saremmo altrimenti incrociati
in seguito a una conferenza naturalistica, alla biblioteca, in libreria, sicuramente
al cinema; ci saremmo certo riconosciuti per il nostro modo di vivere a zonzo
per la città o lungo qualche sentiero dell’allora Pna. Ci siamo ritrovati in
diverse associazioni: un posto nel direttivo del Comitato mobilità sostenibile marsicano,
è stato una sorta di Oscar alla carriera, per entrambi. (Fu gradito da parte
mia perché proveniente da sconosciuti per di più, della generazione successiva).
I mezzi d’informazione
hanno ricordato la spedizione sul Settemila senza nome ma non la sua risposta
alla domanda: «Che cosa ti attrae di più di Himalaya 86?». (La novità del primo
volo in aereo). Martedì sera, un giornalista del Centro considerava per me: «Era un grande sportivo!», mentre io a
spiegare che non era questione di esercizio fisico né soprattutto di
competizione ma c’entrava invece la passione, il bisogno di starsene da soli,
la ricerca del silenzio, la curiosità. (Da almeno un quarto di secolo andare in
montagna è divenuto come minimo uno sport e al massimo un lavoro). In poche frasi
riusciva a farmi capire i paesaggi o le persone che lui incontrava; il mondo
era veramente grande nei suoi brevissimi resoconti: «Durante i suoi viaggi, ciò
che nota meglio degli italiani è la loro frenesia nel consumare – allontanarsi
da una città, una nazione è un modo per conoscerle meglio. Inoltre, all’estero,
hanno generalmente molta meno paura di non trovare, immediatamente, una
farmacia, un distributore di benzina, un ufficio postale» – La memoria delle mani, 2006.
Non ho mai dedicato le mie
pubblicazioni; volevo fare un’eccezione nel 2012 con Il suono del mio passo. Scriverci il suo nome all’inizio perché era
la persona che l’avrebbe apprezzato più delle altre. Era un’invettiva contro la
moda dei libri – e non solo – sul camminare in/da quegli anni; non se ne fece nulla
perché io volli eliminare ogni sentimentalismo da quella specie di volantino. Non
riuscii a dirglielo per pudore quando glielo consegnai.
È un buco che non si
richiuderà almeno per me e gli amici che lo conoscono dagli anni Sessanta,
anche se lui ha impiegato qualche decennio a farci capire che una qualsiasi
vita è effimera e può finire da un momento all’altro. (‘A Love Supreme, A Love Supreme, A Love Supreme’).
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