Mi è capitato di scrivere: «Il
fuoco del 26 era il primo approccio dell’avezzanese con la festa della patrona.
I ragazzi passavano la settimana precedente a recuperare legna da ardere: si trovava quasi ovunque. Ci s’incontrava tra
condomini e vicini di casa in spazi utilizzati per altre attività comuni. Bastava
un bicchiere di vino, una patata cotta sotto la brace, una mela e una fetta di
pizza di Pasqua avanzata per tirare fino a mezzanotte, raccontando le faccende del
vicinato» (Il Velino, 2011). Storie
di cinquant’anni fa. Era disdicevole farsi beccare mentre si bruciava una
traversina (al creosoto, come si è scoperto in seguito) della ferrovia o le
gomme di una Lambretta: non era leale nei confronti di chi passava molto tempo
a raccogliere legna in città e nelle vicinanze.
Si è cominciato a capire (collettivamente)
dagli anni Ottanta che alcuni
materiali bruciati, producono pericolosi inquinanti. Ha ridotto drasticamente
la quantità di materiale combustibile, sia il decreto Ronchi (1999) e sia la
nuova urbanizzazione: ci sono meno alberi e arbusti a portata di bambino. Bruciare che cosa, dall’inizio del
secolo? Senza contare che il legno oggi in uso è molto diverso da quello della
mia infanzia, per com’è impregnato di vernici o di sostanze tossiche in ogni
modo.
La questione in fondo, è
come transitare da tale genere di rituale a qualcosa d’altro, più rispettoso
dell’ambiente e della salute dei viventi.
Nessun commento:
Posta un commento