giovedì 24 aprile 2014

Fuochi fatui


Mi è capitato di scrivere: «Il fuoco del 26 era il primo approccio dell’avezzanese con la festa della patrona. I ragazzi passavano la settimana precedente a recuperare legna da ardere: si trovava quasi ovunque. Ci s’incontrava tra condomini e vicini di casa in spazi utilizzati per altre attività comuni. Bastava un bicchiere di vino, una patata cotta sotto la brace, una mela e una fetta di pizza di Pasqua avanzata per tirare fino a mezzanotte, raccontando le faccende del vicinato» (Il Velino, 2011). Storie di cinquant’anni fa. Era disdicevole farsi beccare mentre si bruciava una traversina (al creosoto, come si è scoperto in seguito) della ferrovia o le gomme di una Lambretta: non era leale nei confronti di chi passava molto tempo a raccogliere legna in città e nelle vicinanze.
Si è cominciato a capire (collettivamente) dagli anni Ottanta che alcuni materiali bruciati, producono pericolosi inquinanti. Ha ridotto drasticamente la quantità di materiale combustibile, sia il decreto Ronchi (1999) e sia la nuova urbanizzazione: ci sono meno alberi e arbusti a portata di bambino. Bruciare che cosa, dall’inizio del secolo? Senza contare che il legno oggi in uso è molto diverso da quello della mia infanzia, per com’è impregnato di vernici o di sostanze tossiche in ogni modo.
La questione in fondo, è come transitare da tale genere di rituale a qualcosa d’altro, più rispettoso dell’ambiente e della salute dei viventi.

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