martedì 2 agosto 2016

Ho avuto modo di arrabbiarmi non poco negli ultimi mesi: sono stato l’unico a criticare l’Amministrazione comunale per la vicenda della scuola elementare di via G. Garibaldi. Ho sbroccato nel vedere le immagini della strada asfaltata ai Prati d’Angro e sorvolo la vicenda del nuovo tracciato autostradale che passa per l’Appennino. (Riprenderò a scrivere sì e no una volta al mese nonostante le sollecitazioni; non contate su me). Riparto con un inedito risalente al maggio scorso.

Ho letto un articolo dedicato all’Abruzzo agli inizi di maggio che mi ha riportato con la mente a trent’anni fa: era composto come quelli di allora. Negli anni Ottanta sono sbucate in edicola alcune riviste (abruzzesi) che parlavano delle nostre province, della loro cultura. (Per essere sincero, salvo giusto qualche servizio e De rerum Natura, una rivista tematica uscita però nel 1993 di quella produzione). Non m’interessa descrivere in quest’occasione i motivi dietro tal effervescenza quanto dei contenuti di dette pubblicazioni. L’Abruzzo generalmente descritto, mostrato – erano zeppi d’immagini a colori certi articoli – era in realtà ciò che gli altri italiani si aspettavano da noi; non si trattava perciò di uno sguardo locale – con tutti i suoi limiti. (Gli stessi materiali impiegati negli articoli sovente non erano di prima mano). Gli abruzzesi sono dediti alla pastorizia secondo la Vulgata corrente e il fotografo della rivista XYZ batte l’Appennino in lungo e in largo per trovare qualche vecchio pecoraio; nelle grosse città immaginano che siamo religiosissimi e sulla costa pubblicano un’intervista a un critico su qualche affresco di soggetto sacro o qualche paginata di foto sui serpari di Cocullo. E così via.
È un montaggio di frammenti tale narrazione. Elementi decontestualizzati e perciò buoni per i racconti più diversi.
S’incrociavano brandelli di paesaggio, scorci di paesini, pezzi di facciate, primi piani di alberi scorrendo le pagine di quelle riviste di carta patinata. Si notavano dei panorami ma solo al tramonto – per far risaltare la silhouette del terreno o di un agglomerato. Le immagini di quel tempo erano attraenti, glamour, ritoccate, ripulite da erbacce, cartelli, macchie, nuvole, rifiuti, tracce, deiezioni di animali. (Nessuna allusione nemmeno a straripamenti, slavine e incendi). Stentavo a riconoscere montagne, valli, boschi, paesi frequentati a piedi in quel periodo – come Roma in Identificazione di una donna (M. Antonioni, 1982). L’obiettivo indugiava sul monumento, sul particolare, sul dettaglio ma glissava sugli spazi pubblici e sui tracciati degli agglomerati da cui avevano preso origine quei soggetti rappresentati, quando si trattava di centri abitati. (Perché i portoni, le finestre, i tetti sono uguali o simili ovunque mentre i paesini dove si trovano sono diversi uno da un altro?). Rimandavano ad altre immagini del Midwest, della Lapponia, dell’Amazzonia, dell’Himalaya, le nostre per via del loro taglio.
Gli scritti prendevano generalmente lo spunto da una serie di topos più che da circostanze, dati o fatti (vecchi, recenti) mescolati e ripetuti fino a ottenere una sorta di litania – recitata non di rado malamente.
Si parte dal luogo comune secondo cui noi viviamo in un posto selvaggio e isolato dal resto della Penisola: «In effetti, le difficoltà delle vie di comunicazione, in passato hanno molto pesato in negativo per lo sviluppo della regione». Ciò contrasta con la storia dell’umanità: l’uomo ha messo piede nella Marsica 40mila anni fa mentre i nostri più vecchi insediamenti risalgono solo a qualche millennio fa. (Il fitto reticolo delle vie di comunicazione precede notevolmente la diffusione del fenomeno urbano). Da ciò però discende lo slogan: «Regione verde d’Europa». «E’ davvero un Eden l’Abruzzo», è constatato nel pezzo mentre secondo gli agronomi e i forestali abruzzesi, a metà maggio: «I boschi d’Abruzzo […] sono completamente abbandonati a se stessi». Sui fianchi del monte Salviano, nell’omonima riserva naturale «Sono state raccolte decine di tonnellate di rifiuti di ogni genere» durante una giornata ecologica, a detta di MarsicaLive il 18 aprile 2016. Mi risparmio argomenti come il dissesto idrogeologico, l’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee. (Giova anche ricordare che i nostri parchi, le nostre riserve naturali non sono piovute dal cielo…).
Il fascino della regione non è solo un vanto (prevedibile) dei suoi abitanti: «Lo raccontano in pagine stupende letterati e viaggiatori che, nei due secoli precedenti, hanno visitato l’Abruzzo: Edward Lear, Maud Howe, Ferdinand Gregorovius, Richard Keppel Cra[v]en, Anne [MacDonell], John Cu[th]bert Hare ed altri. E ancora, nei loro appunti di viaggio e nei loro scritti, ne parlano Carlo Emilio Gadda, Ugo Ojetti, Mario Soldati, Guido Ceronetti, Alberto Savinio, Guido Piovene, Carlo Castellaneta, e più di recente Paolo Rumiz, per citare gli scrittori più noti. Senza contare i nativi abruzzesi Gabriele D’Annunzio, Ignazio Silone, Laudomia Bonanni, Mario Pomilio, Ennio Flaiano, per limitarci ai più grandi».
C’è da registrare un’aggiunta nel pezzo in questione: da noi vive «una gente forte, gentile ed ospitale», non più solo «forte e gentile» come secondo il vecchio detto – men che mai la «gentarella» come invece dichiarato da Raffaele Colapietra e appoggiato dal sottoscritto. La novità è invece consistita nel riportare: «l’Abruzzo tra i migliori posti al mondo dove vivere», pescato da una recente classifica apparsa su HuffingtonPost. Gli abruzzesi già sapevano che nel 2015, si era registrato – per il terzo anno consecutivo – un trascurabile calo della popolazione nella regione: gli umani non sgomitano di sicuro per raggiungere le nostre vallate. (Vi è da aggiungere: nonostante i recenti, straordinari flussi migratori).

Tante dichiarazioni d’amore per la propria terra e decine di foto dei nostri corsi d’acqua – diventati spumosissimi e avvolti dalle brume in fotografia –, non ostacolarono la cementificazione delle sponde di qualche fiume, proprio in quel periodo di spensieratezza collettiva. Trent’anni dopo ci si è invece ritrovati – come abruzzesi – a opporsi alle trivellazioni di pozzi petroliferi a ridosso della nostra costa, nonostante gli innumerevoli scatti alle «spiagge dorate» e a qualche vigneto di Montepulciano, le monografie, le descrizioni più che benevole, i pezzi ispirati e le citazioni colte. Sono stati resi accessibili o almeno visibili – nel frattempo – tutti quei castelli, i siti archeologici, gli affreschi, le cinte murarie, le torri e i «pregevoli» dipinti decantati? Tutto ciò significa che quei prodotti editoriali non sono stati utili agli abruzzesi – nemmeno lontanamente – per la comprensione della realtà regionale risalente a un paio di secoli fa, al tempo del nostro terremoto, oggi. Già, come si è prodotto tutto ciò che incrociamo con il nostro sguardo andando in giro?

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