Ho avuto modo di
arrabbiarmi non poco negli ultimi mesi: sono stato l’unico a criticare l’Amministrazione
comunale per la vicenda della scuola elementare di via G. Garibaldi. Ho sbroccato
nel vedere le immagini della strada asfaltata ai Prati d’Angro e sorvolo la
vicenda del nuovo tracciato autostradale che passa per l’Appennino. (Riprenderò
a scrivere sì e no una volta al mese nonostante le sollecitazioni; non contate
su me). Riparto con un inedito risalente al maggio scorso.
Ho letto un articolo
dedicato all’Abruzzo agli inizi di maggio che mi ha riportato con la mente a
trent’anni fa: era composto come quelli di allora. Negli anni Ottanta sono sbucate
in edicola alcune riviste (abruzzesi) che parlavano delle nostre province, della
loro cultura. (Per essere sincero, salvo giusto qualche servizio e De rerum Natura, una rivista tematica
uscita però nel 1993 di quella produzione). Non m’interessa descrivere in quest’occasione
i motivi dietro tal effervescenza quanto dei contenuti di dette pubblicazioni. L’Abruzzo
generalmente descritto, mostrato – erano zeppi d’immagini a colori certi articoli
– era in realtà ciò che gli altri italiani si aspettavano da noi; non si
trattava perciò di uno sguardo locale – con tutti i suoi limiti. (Gli stessi
materiali impiegati negli articoli sovente non erano di prima mano). Gli
abruzzesi sono dediti alla pastorizia secondo la Vulgata corrente e il fotografo della rivista XYZ batte l’Appennino in lungo e in largo per trovare qualche
vecchio pecoraio; nelle grosse città immaginano che siamo religiosissimi e sulla
costa pubblicano un’intervista a un critico su qualche affresco di soggetto
sacro o qualche paginata di foto sui serpari
di Cocullo. E così via.
È un montaggio di
frammenti tale narrazione. Elementi decontestualizzati e perciò buoni per i racconti
più diversi.
S’incrociavano
brandelli di paesaggio, scorci di paesini, pezzi di facciate, primi piani di
alberi scorrendo le pagine di quelle riviste di carta patinata. Si notavano dei
panorami ma solo al tramonto – per far risaltare la silhouette del terreno o di un agglomerato. Le immagini di quel tempo
erano attraenti, glamour, ritoccate,
ripulite da erbacce, cartelli, macchie, nuvole, rifiuti, tracce, deiezioni di
animali. (Nessuna allusione nemmeno a straripamenti, slavine e incendi). Stentavo
a riconoscere montagne, valli, boschi, paesi frequentati a piedi in quel
periodo – come Roma in Identificazione di
una donna (M. Antonioni, 1982). L’obiettivo indugiava sul monumento, sul particolare,
sul dettaglio ma glissava sugli spazi pubblici e sui tracciati degli agglomerati
da cui avevano preso origine quei soggetti rappresentati, quando si trattava di
centri abitati. (Perché i portoni, le finestre, i tetti sono uguali o simili
ovunque mentre i paesini dove si trovano sono diversi uno da un altro?). Rimandavano
ad altre immagini del Midwest, della Lapponia, dell’Amazzonia, dell’Himalaya, le
nostre per via del loro taglio.
Gli scritti prendevano
generalmente lo spunto da una serie di topos
più che da circostanze, dati o fatti (vecchi, recenti) mescolati e ripetuti
fino a ottenere una sorta di litania – recitata non di rado malamente.
Si parte dal luogo comune
secondo cui noi viviamo in un posto selvaggio e isolato dal resto della
Penisola: «In effetti, le difficoltà delle vie di comunicazione, in passato
hanno molto pesato in negativo per lo sviluppo della regione». Ciò contrasta
con la storia dell’umanità: l’uomo ha messo piede nella Marsica 40mila anni fa
mentre i nostri più vecchi insediamenti risalgono solo a qualche millennio fa. (Il
fitto reticolo delle vie di comunicazione precede notevolmente la diffusione
del fenomeno urbano). Da ciò però discende lo slogan: «Regione verde d’Europa».
«E’ davvero un Eden l’Abruzzo», è constatato
nel pezzo mentre secondo gli agronomi e i forestali abruzzesi, a metà maggio:
«I boschi d’Abruzzo […] sono completamente abbandonati a se stessi». Sui
fianchi del monte Salviano, nell’omonima riserva naturale «Sono state raccolte
decine di tonnellate di rifiuti di ogni genere» durante una giornata ecologica,
a detta di MarsicaLive il 18 aprile
2016. Mi risparmio argomenti come il dissesto idrogeologico, l’inquinamento delle
acque superficiali e sotterranee. (Giova anche ricordare che i nostri parchi,
le nostre riserve naturali non sono piovute dal cielo…).
Il fascino della
regione non è solo un vanto (prevedibile) dei suoi abitanti: «Lo raccontano in
pagine stupende letterati e viaggiatori che, nei due secoli precedenti, hanno
visitato l’Abruzzo: Edward Lear, Maud Howe, Ferdinand Gregorovius, Richard
Keppel Cra[v]en, Anne [MacDonell], John Cu[th]bert
Hare ed altri. E ancora, nei loro appunti di viaggio e nei loro scritti, ne
parlano Carlo Emilio Gadda, Ugo Ojetti, Mario Soldati, Guido
Ceronetti, Alberto Savinio, Guido Piovene, Carlo Castellaneta, e più di recente Paolo Rumiz, per citare gli scrittori più noti. Senza contare i
nativi abruzzesi Gabriele D’Annunzio,
Ignazio Silone, Laudomia Bonanni, Mario
Pomilio, Ennio Flaiano, per limitarci
ai più grandi».
C’è da registrare un’aggiunta
nel pezzo in questione: da noi vive «una gente
forte, gentile ed ospitale», non più solo «forte e gentile» come secondo il
vecchio detto – men che mai la «gentarella» come invece dichiarato da Raffaele
Colapietra e appoggiato dal sottoscritto. La novità è invece consistita nel
riportare: «l’Abruzzo tra i migliori
posti al mondo dove vivere», pescato da una recente classifica apparsa su HuffingtonPost. Gli abruzzesi già
sapevano che nel 2015, si era registrato – per il terzo anno consecutivo – un trascurabile
calo della popolazione nella regione: gli umani non sgomitano di sicuro per
raggiungere le nostre vallate. (Vi è da aggiungere: nonostante i recenti,
straordinari flussi migratori).
Tante dichiarazioni
d’amore per la propria terra e decine di foto dei nostri corsi d’acqua –
diventati spumosissimi e avvolti dalle brume in fotografia –, non ostacolarono
la cementificazione delle sponde di qualche fiume, proprio in quel periodo di
spensieratezza collettiva. Trent’anni dopo ci si è invece ritrovati – come
abruzzesi – a opporsi alle trivellazioni di pozzi petroliferi a ridosso della nostra
costa, nonostante gli innumerevoli scatti alle «spiagge dorate» e a qualche vigneto di Montepulciano, le monografie,
le descrizioni più che benevole, i pezzi ispirati e le citazioni colte. Sono stati
resi accessibili o almeno visibili – nel frattempo – tutti quei castelli, i siti
archeologici, gli affreschi, le cinte murarie, le torri e i «pregevoli» dipinti
decantati? Tutto ciò significa che quei prodotti editoriali non sono stati
utili agli abruzzesi – nemmeno lontanamente – per la comprensione della realtà
regionale risalente a un paio di secoli fa, al tempo del nostro terremoto, oggi.
Già, come si è prodotto tutto ciò che incrociamo con il nostro sguardo andando
in giro?
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