domenica 10 novembre 2013

K'sLT 42


C’è stata una sorta di guerra a bassa intensità, un lavorio discreto contro il passato recente, di là della cultura modernista e fin dal 1915. (La mia prima pubblicazione su Avezzano s’intitolava non a caso, Algoritmi dell’oblio). Dietro cosa c’è, a livello di pensiero?
Gli avezzanesi hanno indugiato finora con il mito della città risorta dalle macerie. (Proprio risorta, prima d’ascendere non si sa dove. Si parla sempre di «vittime» del sisma e mai di morti, ça va sans dire). Tale mito, che cosa nasconde a sua volta? (Quali azioni degli uomini devono sembrare naturali e perciò, al disopra d’ogni sospetto?). L’elenco è lungo in proporzione inversa a ciò che è stato tramandato a livello storico ed è quindi corposo. Colpisce della vicenda il fatto che un centro semidistrutto da un sisma, conta lo stesso numero d’abitanti nel volgere di pochi anni. Com’è potuto succedere? A che prezzo? Quali equilibri sono stati sconvolti, a livello comprensoriale? Chi ha tirato fuori i quattrini per ricostruire (privati, Regno d’Italia, stati stranieri – nonostante la guerra in corso)? Si è preferito distruggere il vecchio impianto urbanistico: perché? (San Giovanni decollato s’è salvato dai picconi per il rotto della cuffia. Dicono che sia stato lo speziale a spiegare ai funzionari del Regno il tipo di costruzione che si voleva abbattere). è stata costruita la periferia-dormitorio prima della direttrice principale della nuova Avezzano (municipio-stazione ferroviaria): come mai? Ci sono volute quattro generazioni per inaugurare un nuovo teatro: perché? (C’è un decennale coriaceo rifiuto della storia a fronte della venerazione tout court di un passato inventato di sana pianta e immancabilmente «glorioso»).
C’è un’enorme massa di domande da porsi in realtà e un lungo lavoro di tipo storiografico da avviare. Sono semplici mie curiosità le precedenti: uno storico porrebbe questioni di ben altro tono e che avrebbero un probabile effetto decisivo sul pensiero locale.
Il terremoto del 1915 entra di diritto nelle commedie cosiddette dialettali ma nemmeno l’arte riesce ad aggiungere qualcosa alla Vulgata ad uso delle élite. La foga di fabbricare un dialetto, una tradizione e di citare sul palcoscenico aneddoti e fatterelli del tempo andato, fa dimenticare un vecchio detto che suona all’incirca: «Dove non ha potuto il terremoto, è riuscita la ricostruzione». (2/2)

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