Mi sono occupato di
questioni «geograficamente» distanti dai miei interessi, negli ultimi tempi. («Ci
vuol poco», dirà chi mi conosce bene). M’infastidisce sentir parlare male di
parchi e riserve naturali, e le nostre testate locali quest’anno ci sono andate
giù duro.
Ho anche capito dal numero
dei commenti che certi argomenti interessano poco al punto che si possono
scrivere senza problemi delle amenità. (Ci sono andate giù duro, anche in
questo caso). Io pubblico qualcosa sul traffico o sul nostro centro città nel
blog, e i miei contatti impennano mentre su una testata on-line molto seguita, per un orso o un cervo ucciso a fucilate non
succede lo stesso e bisogna ricorrere al sensazionalismo o – peggio ancora – al
complottismo per indirizzare gli internauti.
Mi resta facile confrontare
i beni artistici e quelli ambientali. Gli ingredienti politici sono stati identici:
lo stato è intervenuto prima sul patrimonio naturale e dopo alcuni lustri,
sulle nostre città d’arte. Le reazioni sono state però diverse. È filato tutto
liscio, nel primo caso mentre nel secondo, s’è assistito a fenomeni di estesa resistenza
da parte di chi lavorava nel comparto, di studiosi e critici d’arte. È utile ricordare
che tale movimento d’opinione ha prodotto una gran mole di articoli, petizioni,
incontri, conferenze e libri.
(Detto in maniera
semplificata. Buona parte dei fondi riservati alle Belle arti, finisce in
mostre anziché agli scavi e alla catalogazione e quelli destinati ai Beni
ambientali in promozione turistica anziché alla ricerca. Da decenni. Il modello
imposto è a metà strada tra il parco a tema e Sugar Mountain).
Il personale (poco
motivato) di parchi e riserve naturali è in realtà un po’ diverso da chi lavora
nelle Soprintendenze. I Parchi sono pieni d’impiegati e segretarie anziché di
biologi; gli stessi enti fanno poca ricerca e pubblicano ancor meno. C’è bisogno di
biologi, di botanici e anche di geografi e di storici per funzionare,
semplicemente.
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