mercoledì 13 gennaio 2016

TWD 3


Ai giovani marsicani interessa poco o niente il terremoto di cento anni fa? (Del resto invece?). Sono proprio le istituzioni con cui loro entrano in contatto alla loro età (scuola, università, sindacato) che non riescono a formarli e a integrarli nella società perché gli propongono valori e racconti estranei alla loro esperienza quotidiana; non c’è però nessuna «contestazione» al contrario dei miei tempi ma indifferenza, silenzio e probabilmente rancore. (Già, come la pensano i giovani d’oggi?). Tutto ciò è comprensibile da anni in Europa e nel Nord-America ma fino a un certo punto: una testata giornalistica dovrebbe evitare di pubblicare contemporaneamente l’ipotesi fantascientifica del sisma del 1915 dovuto al prosciugamento e l’intervista a un geologo; un’amministrazione comunale dovrebbe preservare il «lascito» della ricostruzione o almeno, i manufatti di pregio scampati alla furia del sisma. Si ristampano vecchi libri inutili già appena freschi di tipografia ignorando ciò che è prodotto negli ultimi decenni da personaggi qualificati: a che cosa serve ma soprattutto a chi? Tale ciarpame dovrebbe costituire l’immaginario dei marsicani nonostante gli errori, le ingenuità, le leggende, le lacune e gli strafalcioni. (Alcuni dei maggiori concertisti rinnegano di quando in quando le loro incisioni di venticinque, trent’anni prima eppure si tratta di punti di riferimento ormai consolidati per il collega più giovane, il critico musicale, l’allievo del Conservatorio e il comune appassionato di musica). Si confonde da noi perciò – spesso e volentieri – un volume con la letteratura, un frammento di coccio con l’archeologia, l’esercitazione scolastica con la pittura, un fortuito acquisto dal rigattiere con la storiografia, fare l’isterica su un paio d’assi di legno con il teatro, una nota editoriale di copertina con la critica letteraria: Joyce, Musil, Mann vale quanto il comune imbrattacarte del posto – ve ne sono numerosi. Tutto ciò non avvicina un giovane e allontana il laureato medio. (È facile che succeda questo in provincia: non ti guarda nessuno). Più di un politicante e di un pubblicista utilizza senza provare vergogna o almeno sentirsi ridicolo la locuzione «popolo Marso» applicandola ai cittadini del comprensorio. È encomiabile – in piccola parte – il tagliacozzano desideroso di difendere il proprio dialetto dalla globalizzazione: ci aveva in realtà già pensato la televisione negli anni Cinquanta e Sessanta (del secolo scorso) a omogeneizzare, «romanizzare» il modo di parlare degli italiani. Non ha molto senso attaccare l’etichetta «avezzanese» al grammelot che si biascica in sparute occasioni: si tratta di una moneta fuori corso da un secolo. (Chi lo ammannisce ai concittadini, non costruisce identità, convivialità e socialità bensì esclusione – le «voci» dei giocattoli per infanti sono bi-lingue, da anni). Usiamo lo smartphone anche nella Marsica e perciò possiamo osservare ciò che avviene altrove nelle capitali politiche, economiche e culturali di mezzo mondo, ma restiamo invece ancorati alle pastoie di almeno mezzo secolo fa, una volta spento il dispositivo. Assistiamo perciò a una sorta di divisione: siamo globali, metropolitani con un cellulare in mano e locali, provinciali senza uno schermo nelle vicinanze.
La nostra proposta culturale non provoca dibattito né produce cultura o un briciolo di trasformazione; non si mangia ma nemmeno può essere utilizzata in alcun modo dalle persone e dalle nuove generazioni in particolare. (3/3, Territori in movimento 12 2015)

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