A Ferragosto m’è capitato
di leggere un comunicato che mi ha fatto vacillare. Lo riporto:
Ci ho messo del tempo per
elaborare qualcosa sulla sgradevole sensazione che ho provato e alla fine ho
trovato un solo termine: colonialismo. Una situazione simile a quella in cui un
indiano o un malese ascoltava i (buoni) consigli e le (ottime) raccomandazioni di
un inglese sul come sbarcare il lunario. (Con la differenza che un inglese del
periodo coloniale trasportava in giro armi, scienza, tecnica, idee e tecnologia
mentre a me è stato proposto un intruglio d’idee raccogliticce, idolatrie, populismo
di maniera, rancore, trovate da pubblicitari).
In sostanza: c’è un’associazione
che si schiera a favore di una riduzione del PNR Sirente-Velino. Non mi
scandalizza che si tratta di un’associazione ambientalista.
E’ l’eccessivo,
sovrabbondante resto che infastidisce. Non ci si rende conto che un qualsiasi
parco naturale, per quanto troppo esteso, difettoso o imperfetto, difende (poco,
tanto, così-così) un territorio dalle attività – legali o illegali – di
cavatori, cacciatori, smaltitori, tagliatori, albergatori, lottizzatori. (E’
più difficile rubare la ghiaia di un fiume, costruire decine di villette a
schiera abusive, spargere rifiuti tossici e nocivi dove capita in un’area
protetta). Capisce ciò chi porta avanti da anni vertenze di tipo ambientale,
mentre chi passa la vita a contare il numero degli orsi, dei cinghiali o dei
camosci se ne infischia: perché è il suo modo di fare secessione – anche se poi
gode in modo parassitario i frutti delle lotte altrui. L’Abruzzo sarebbe un’altra
cosa senza i parchi naturali e senza le vertenze ambientaliste degli ultimi
trent’anni; sarebbe almeno una pattumiera o un parco dei divertimenti a uso e
consumo di chi vive altrove. L’esperienza degli ultimi decenni – soprattutto
quella dei tre inceneritori nel nostro nucleo industriale – mi ha insegnato che
i vincoli su un territorio non sono mai troppi.
(E’ da incorniciare l’espressione:
«vero ambiente naturale»).
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