martedì 7 luglio 2015

F 3


Il volumetto mi ha riportato indietro ad almeno trent’anni fa: decine di documenti letti o scritti in quel periodo esordivano così. (Mi ha dato anche l’impressione di un patchwork in cui le pezze sono state trattenute per qualche ora in una soluzione di acqua e varecchina, prima d’essere cucite insieme). È lodevole l’aggiunta di un argomento di cui si tratta – a livello di massa – dagli inizi del secolo: la questione dell’acqua (I, II). Essa è un probabile omaggio alle associazioni cattoliche che hanno costituito il nerbo del movimento che ha portato al referendum sull’acqua pubblica (2011).
È insolita per un abitante del Vecchio continente anche la citazione di documenti delle chiese latino-americane sui temi ambientali e sociali: ciò succede perché non interessano certi argomenti – tenuti rigidamente separati, tra l’altro –, da noi.
Ho trovato anche un paio di «tirate» poetiche: «Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei» (§ 2); poi: «Queste situazioni provocano i gemiti di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta» (I, VI, § 53), dopo G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese, 1824. Quest’altra invece non è né poesia né romanticismo tedesco, bensì profonda saggezza: «sia nell’ambiente urbano sia in quello rurale, è opportuno preservare alcuni spazi nei quali si evitino interventi umani che li modifichino continuamente» (IV, III, § 151).
È simpatico da leggere (in italiano), della scarsità degli alloggi in una nazione che ha dimenticato da almeno quarant’anni la nozione di edilizia pubblica (IV, III, § 152).
Ho ripensato alla mia permanenza a Roma e Milano, a chi sta ancora da quelle parti in un brano: «Il riconoscimento della peculiare dignità dell’essere umano molte volte contrasta con la vita caotica che devono condurre le persone nelle nostre città» (IV, III, § 154).
Voglio ricordare anche un brano mutuato da Tommaso da Celano: san Francesco «chiedeva che nel convento si lasciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le avrebbero ammirate potessero elevare il pensiero a Dio, autore di tanta bellezza» (§ 12). (3/4)

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