Ho eliminato
dal precedente post la mia solita domanda: perché – in un rigurgito di onestà
intellettuale – non chiudono i corsi e le facoltà di storia nelle università
italiane, calcolando che il loro lavoro è pochissimo o per niente apprezzato
dai connazionali? Mi trattengo da quelle parti.
Alla fine di
maggio c’era nell’aria qualcosa di pesante sulla facoltà di Giurisprudenza. Agli inizi di giugno è uscito un pezzo sull’esiguo
numero degli immatricolati in quella facoltà (Il Centro). Sorgeva spontanea una domanda, dopo una simile lettura:
«Vale la pena tirare fuori tanti
nostri quattrini per così pochi
studenti?». Se n’è parlato pochissimo in giro; è poi da segnalare un incontro
tra il nostro sindaco e il rettore di Teramo alla metà del mese, in cui il
primo cittadino ha affermato: «a fronte
di costi elevati e certi, i benefici sono incerti per il
territorio, pure considerato il continuo calo nel numero degli iscritti» (Centralmente 14 giugno 2018; sono miei i
grassetti).
Ho anche
apprezzato la lettera aperta a Gabriele De Angelis di Stefano Fabrizi (Confagricoltura);
sono particolarmente d’accordo con lui su questo brano: «Se l’Università è una
questione economica per le famiglie questa non è una buona ragione per aprire
centinaia di sedi distaccate che, insieme anche a quelle on line, sviliscono la
didattica, la ricerca e dequalificano ulteriormente la preparazione degli
studenti», 16 giugno 2018. Il nocciolo della questione in realtà è: perché a un certo momento della storia
italiana spuntano fuori le università
decentrate? (Chi vive in periferia generalmente ignora i motivi per cui un
governo porta avanti una determinata politica).
Stavolta si
è acceso un briciolo di dibattito con forti connotati provinciali – in genere
s’improvvisa sul tema «Università»; ci si è al solito divisi tra i sostenitori
di De Angelis e quelli di Di Pangrazio, tralasciando di rispondere – laicamente
– alla domanda che girava tra gli avezzanesi già dal 5 giugno: è conveniente mantenere la facoltà di
Giurisprudenza ad Avezzano?
(Hors Catégorie). Mario Pisotta: «Il
corso di Giurisprudenza di Teramo è rinomato anche e soprattutto per i suoi
docenti di fama internazionale e sono gli stessi di Avezzano», in R. Placida, Università di Avezzano. Fabrizi
(Confagricoltura): «Dibattito strabico». Mario Pisotta (studenti): «Battaglia
di civiltà», in «MarsicaWeb» 16
giugno 2018. Consiglio anche a voi di provare a rintracciare «Teramo» nella top-ten delle migliori facoltà italiane
di Giurisprudenza – nel senso: classifica Censis-LaRepubblica.it 2017. (Teramo,
tra l’altro, è classificata dal Censis «piccolo ateneo»). Prima invece si
leggeva: «se la sede universitaria diventasse appetibile, l’indotto economico
sarebbe notevole. Pensiamo a tutte le attività commerciali che potrebbero
puntare su una clientela… “universitaria”: negozi bar, ristoranti e locali
notturni». Che è come dire: una saldatura tra la mentalità bacata dei nonni e
quella dei nipoti, la riproposizione tout
court del classico modello L’Aquila, la città degli affittacamere.
Giocherellando
nel web ho conosciuto il numero degli italiani che, per motivi economici, rinunciano
alle analisi di laboratorio, alle cure mediche e anche alle medicine: una cifra
a sette zeri.
‘Sha la la la la’.
P.S. (A
proposito del capoluogo regionale). L’operazione Gran Sasso Science Institute è
stata, sicuramente, un colpo da maestro.
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