È stato accoppiato il termine
«condivisione» alla decisione di ricavare 650 km di piste ciclabili a New York
in sei anni. Qualcuno si chiedeva: avranno «condiviso» tale decisione gli
abitanti (8,6milioni) di quel posto o è andata come ad Avezzano? (Ammesso che
sia esatta l’immagine che prima, diverse
testate locali hanno aiutato a costruire e poi adorato). Uno stereotipo dice
che nei paesi anglofoni, le persone sono pragmatiche, vestono casual e sono poco formali. (La città statunitense
già ospita 1.600 km di piste ciclabili; gli Stati Uniti sono notoriamente la
patria dell’automobile).
Non uso mai
quel termine perché – per me – resta un vocabolo legato alla tecnologia: esso si
usava all’inizio degli anni Novanta quando – chez nous –, si collegavano tra loro due o più computer; si parlava
di condivisione quando entravi nella stazione di un altro per vedere o
scaricare sulla tua il lavoro di un altro. È usato oggi in vece di accordarsi,
trattare. Nell’ultimo periodo quel termine è addirittura idolatrato. Idolatrato
– insieme alla definizione democrazia diretta – nel senso che la «condivisione»
non è più un mezzo per ottenere,
raggiungere, costruire qualcosa con altri, bensì un fine. (I miti caprai dell’Asia Minore hanno capito queste cosine venticinque secoli fa). Scompare così l’amministrazione
della cosa pubblica, la politica e
il conflitto. (‘Pólemos di tutte le cose è il padre’ – abbiamo giocato anche noi la
nostra parte, all’incirca nello stesso periodo). È un modo utilizzato con
successo per immobilizzare una situazione.
(Se n’è
andato anche Bernardo Bertolucci).
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