‘Sitting on a park bench | Eying little girls with bad intent | Snots running down his nose | Greasy fingers smearing shabby clothes, hey,
Aqualung’. Riparto in qualche maniera dal pezzo precedente, per meglio
mostrare i motivi di alcuni miei incidenti diplomatici. Succede da qualche anno
che una persona abituata a passare molto tempo su Facebook o su Twitter con
gente che ha gli stessi interessi (gattini, ikebana,
Juventus, vegani, sesso, fascismo, gossip,
pesca a mosca, aborto), poi quando capita
sul sito di un comune quotidiano tipo Il
Corriere della Sera o un blog, perde l’orientamento perché è cambiato improvvisamente
il paesaggio. (Proseguo). Una lezione di John Cage (compositore, 1912-92) è
stata per il sottoscritto quella di produrre qualcosa che gli altri possano
utilizzare, in qualche modo. Vado al sodo.
Mentre leggevo distrattamente un pezzo (F.
Proia, Ex clinica Santa Maria tra spaccio
e criminalità, la terra di nessuno nel pieno centro di Avezzano, in
«Marsicalive» 10 novembre 2017) ho incrociato: «Questi giovani, che gravitano
nei pressi della struttura dell’ex clinica, non è la prima volta che arrecano
fastidio a tutto il quartiere». Scrivono delle mie parti mi sono detto e ho
ripreso dall’inizio. (Abito a un isolato di distanza da quel posto e la popolazione
del mio «quartiere» è intorno alle 4mila
persone). Non mi sovviene il citato «fastidio» per quanto mi sforzi – almeno a
me. L’ex-clinica «è diventato un degradato punto di appoggio per la criminalità
e lo spaccio degli stupefacenti». (Diventato, ergo: dall’oggi al domani). Per essere più precisi, alcuni giovani
non solo italiani: «utilizzano l’ex clinica come rifugio e zona franca per
portare a termine commerci e scambi illeciti di ogni genere, alla luce del
giorno». Si dirà che è l’onda lunga del narcisismo degli anni Ottanta: chi è
tanto ingenuo da vendere bustine al centro d’Avezzano, di giorno e soprattutto
attirando l’attenzione? Infine, «I residenti nei dintorni della clinica,
stressati da una situazione che diventa sempre più pesante, non fanno che
lamentarsi». Immagino che si riferisca a quelli che occupano gli ultimi piani
del condominio di fronte o al massimo, al parrucchiere affianco. In pratica:
c’è gente che vede commettere dei reati e anziché denunciare – con nome e
cognome –, chiamare le forze dell’ordine, filmare con lo smartphone e pubblicare in rete da qualche parte o scrivere addirittura
al sindaco… si stressa. (Siamo tornati
fatalmente a Debord). Nel corso degli ultimi anni, a giudicare da ciò che io noto
dall’esterno, direi che lì dentro qualcuno ci andasse a dormire; immagino anche
che il caso è scoppiato perché di recente ha
ceduto una parte della recinzione e dal lato esterno, quello che dà sul
marciapiede.
Se n’è perciò scritto molto di questa
vicenda, ma non si ha niente di sicuro, di definito in mano: bisogna purtroppo intrufolarcisi,
lì dentro per averne un’idea chiara. È in realtà difficile trattare di simili
situazioni per diversi motivi. Gli inquilini (abusivi) possono cambiare di
settimana in settimana, la stessa abitazione può essere abbandonata dopo pochi
mesi o qualche anno. (Nel pezzo, tra l’altro, si ricordano solo gli edifici
pubblici mentre le strutture
maggiormente colpite o a rischio sono
quelle private: è sufficiente una passeggiata per rendersene conto. Già
dimenticata la vicenda della stamberga lungo via G. Garibaldi?) Gli occupanti
in genere sono in ogni modo persone
senza casa, italiani o stranieri. I secondi a differenza dei primi lavorano
dieci, dodici ore, pressoché ogni giorno ma non ce la fanno a vivere in affitto
per via dell’esiguo stipendio. Vivendo in tanti dentro una stanza e sotto lo
stesso tetto, può succedere che qualcuno vuoi per arrotondare lo stipendio un
po’ perché ha scarsa voglia di un lavoro onesto, prende a delinquere (furti,
spaccio di sostanze illegali, eccetera). Può perciò anche capitare che uno
degli occupanti (abusivi) utilizzi una stanza solo per stoccare momentaneamente
che so, trenta metri di cavi o qualche discendente di rame rubato da qualche
parte. In caso di «sfratto» da parte dei carabinieri o della polizia, gli
occupanti sono costretti a trovare un’altra situazione «abitativa» – non si
rendono conto di far parte di uno spettacolo
che non comprendono, non leggendo quello che si scrive su di loro.
Tali personaggi sfuggono in qualche
maniera sia ai servizi sociali del Comune sia a quelli privati (Caritas).
Quanto costerebbe alla pubblica amministrazione, fornire almeno un riparo alle
decine – la cifra è più che ottimistica – di senza-tetto locali? Un botto di quattrini,
immagino: meglio che se la sbrighino tra loro – abusivamente, s’intende.
Ho pubblicato queste cose, lo scorso 8
marzo; mi riferivo a più di una
situazione nella stessa zona, ma senza pubblicare indirizzi o foto di sorta:
Un’altra questione è
l’abbandono – almeno trentennale – del centro mentre la stampa locale si
straccia le vesti di recente e solo quando chiude un negozio. Le ultime
amministrazioni comunali avrebbero dovuto dotarsi di politiche in grado di
evitare tutto ciò più che parteggiare, favorire i proprietari d’immobili.
A saper leggere la cronaca
degli ultimi anni, il pericolo principale è in realtà costituito dai capannoni (commerciali, industriali) abbandonati: un conto è sloggiare
quattro poveracci con le loro carabattole un altro è trovarsi il contenuto di qualche
camion colmo di rifiuti tossici e nocivi scaricato dentro simili strutture; con
tutto quel che ne consegue per l’ambiente a distanza di anni. (‘Oh Aqualung’).
P.S.: la recinzione di cui
sopra è pericolante; non è proprio il massimo della sicurezza per i passanti.
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