Discutendo del post
precedente in giro, sono spuntate delle questioni del tipo: perché un blogger è più preciso di un giornalista
quando scrive? Non è solo una questione di tempi, più dilatati per chi agisce
come me. Ritengo che, nel caso specifico, si debba alla conoscenza minuziosa del
territorio – in fondo ho scritto di fatti che succedono da anni quasi sotto
casa –, ma anche alla sordina che ho imposto a una caratteristica tipica
locale: l’ipocrisia. C’entra anche
l’incapacità di vedere il quadro
d’insieme – che è un riflesso ideologico, è inutile nascondersi dietro un dito –, ma non solo. Un
lavoratore assai malpagato, un povero tout
court, il tipo di passaggio e un delinquente hanno lo stesso interesse solo nelle ore in cui si trovano dentro un
edificio occupato illegalmente. È perciò sbagliato, fare un fascio di tutta
l’erba, scrivendo di simili questioni o nel caso d’interventi. (Divide et impera, invece?)
Non si può conoscere tutto
a questo mondo, però si può avvicinarcisi per farsene uno straccio d’idea.
Riprendo questo: «Quanto
costerebbe alla pubblica amministrazione, fornire almeno un riparo alle decine
– la cifra è più che ottimistica – di senza-tetto locali?». Due giorni prima di
pubblicare quel brano, io avevo letto la notizia della diffusione di alcuni
dati sulla povertà, da parte di Caritas diocesana Roma. Il numero delle persone
in «povertà estrema», nella Capitale riferito al 2016, varia dalle 7.500 a
quasi 16mila unità – su 2.868.000 romani. (Il rapporto nazionale, Vasi comunicanti, risale alla metà di
ottobre 2017). Ho confrontato la media dei due dati con la situazione locale; saranno
sicuramente meno numerosi i nostri perché ad Avezzano la vita è meno costosa d’accordo,
ma 100 è una cifra su cui
scommetterei.
Parlando della situazione di
piazza A. Torlonia nelle ore della notte anni fa, chiesi provocatoriamente: se
non da quelle parti, dove dovrebbero andare a comprare sostanze illegali i 2mila avezzanesi che ne fanno uso?
Questo dato era anch’esso ricavato dalla media nazionale, eliminando la
quantità eccedente duemila.
Denunciando il degrado di
piazza G. Matteotti si finisce inevitabilmente – si fa per dire – per
affrontare il «problema» delle prostitute che sostano da quelle parti. Loro si
trovano lì, sempre diverse immagino dagli esordi della ricostruzione
post-terremoto, un secolo fa. Durante l’adolescenza e in gioventù, nel mio
vagare per l’Italia e il Vecchio continente, ho sovente notato lo stesso
«paesaggio» in luoghi simili. (È diverso giusto per i paesi in cui la stazione
ferroviaria è molto distante dal centro). Si può tentare lo stesso gioco con i
dati nazionali cum grano salis perché
la prostituzione è un’attività generalmente femminile e due volte su tre, si
svolge per strada. A voler considerare i/le compaesani/e dei/lle santarelli/e e
che perciò scarsamente usufruiscono di tale tipo di «servizio», posso proporre
agevolmente la quantità 5mila. (Su 60,8 milioni d’italiani, nove vanno a puttane in senso letterale.
L’ha scritto La Repubblica non Poochetta Times)
Nella primavera del 2020,
entrerò a far parte della popolazione anziana; ricordo di aver combattuto –
com’è prevedibile – il moralismo della generazione precedente la mia mentre
oggi impiego una parte del mio tempo a irridere quello della seguente, ed è
grottesco.
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