mercoledì 25 ottobre 2017

Bottegai

C’entrava il provincialismo nel post precedente, proseguo su quella strada.
Molti candidati hanno immaginato mari e monti per Avezzano nella campagna elettorale delle ultime Amministrative, ne ho già parlato. (È stata inventata dalle nostre parti, ma è rimasta inutilizzata, la formula «città territorio»). In simili occasioni si può promettere di tutto, perché le persone sono mosse anche dalle emozioni oltre che dai consueti rapporti di parentela o personali, soprattutto al ballottaggio. A fine mandato invece, i sindaci elencano le cose «fatte» più che i loro effetti, ciò che esse hanno prodotto nella società locale. Bisognerebbe invece fornire i dati quantitativi di un quinquennio di vita politico-amministrativa più che contare le giacche estive che mi sono rimaste nel magazzino, i cartoni d’acqua minerale che ho venduto durante la settimana, i biglietti esauriti in un battibaleno per il concerto di XYZ o quanto ho incassato nel 2016.
È stato commemorato di recente Mario Spallone, già sindaco d’Avezzano oltre che di Lecce nei Marsi. Tra i vari aspetti della sua personalità e della sua lunga permanenza nel mondo della politica, è spuntato a un tratto un presunto miglioramento della nostra posizione in una non specificata classifica dei comuni italiani. Si è scritto circa il raggiungimento di «un’immagine nazionale invidiabile» – perdonate, ma preferisco non citare la fonte. (E poi: invidiabile da chi, dai lanuseini, i riminesi, i bassanesi, gli idruntini? Gli ultimi sono compaesani di Carmelo Bene). Ho invece provato più volte e senza successo a deviare gli avezzanesi dai loro sogni di gloria: questo posto non può sperare in avanzamenti di sorta. Perché?
Ripeto: perché siamo troppo pochi; ho ascoltato un mesetto fa – una radio musicale su un canale televisivo, dal barbiere – l’espressione «paesino di 80mila abitanti» – quasi il doppio di noi – e mi è rimasta impressa nella mente. È bene non dimenticare che il nostro agglomerato urbano tra l’altro è lontano dai flussi, dai circuiti che contano. (Più di cinque, dieci anni fa).
Non possiamo attrarre lavoratori, gente da fuori in generale perché non abbiamo la complessità produttiva di una grande città. Nelle città italiane con oltre un milione d’abitanti si riesce a fare di tutto perché i vari ambienti, fanno interagire le figure professionali più diverse e disparate; quelle mancanti sono importate a tempo determinato o per un’intera carriera. (Sono presenti le università, le accademie, i politecnici e le scuole più diverse nelle grandi città).
Vi è poi un altro dato da non sottovalutare, la dimensione del mercato. Un semplice esempio. Nella Marsica devi sputare sangue per vendere cento copie di un volume mentre chi abita a Roma o a Napoli con la stessa fatica, ne piazza almeno cinque volte tanto.
Non è perciò un caso se noi attraiamo manovalanza scarsamente specializzata; esportiamo laureati e importiamo badanti, venditori ambulanti, colf, al massimo braccianti. (Mal comune, mezzo gaudio: è una caratteristica dell’Italia negli ultimi lustri. Purtroppo). I recenti dati indicano che la disoccupazione diminuisce nei grandi centri e cresce nei piccoli; le percentuali sugli expat nell’ultimo anno (Rapporto Italiani nel mondo, Fondazione Migrantes), danno i giovani abruzzesi… in ottima posizione. A questo si aggiunga la leggera flessione della popolazione regionale negli ultimi due anni...

(Expat significa persone che non finiscono più nella periferia della Capitale o a Milano come un tempo, bensì a migliaia chilometri di distanza da noi).

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