C’entrava
il provincialismo nel post precedente, proseguo su quella strada.
Molti
candidati hanno immaginato mari e monti per Avezzano nella campagna elettorale
delle ultime Amministrative, ne ho già parlato. (È stata inventata dalle nostre
parti, ma è rimasta inutilizzata, la formula «città territorio»). In simili
occasioni si può promettere di tutto, perché le persone sono mosse anche dalle
emozioni oltre che dai consueti rapporti di parentela o personali, soprattutto
al ballottaggio. A fine mandato invece, i sindaci elencano le cose «fatte» più
che i loro effetti, ciò che esse
hanno prodotto nella società locale.
Bisognerebbe invece fornire i dati quantitativi
di un quinquennio di vita politico-amministrativa più che contare le giacche estive
che mi sono rimaste nel magazzino, i cartoni d’acqua minerale che ho venduto
durante la settimana, i biglietti esauriti in un battibaleno per il concerto di
XYZ o quanto ho incassato nel 2016.
È
stato commemorato di recente Mario Spallone, già sindaco d’Avezzano oltre che
di Lecce nei Marsi. Tra i vari aspetti della sua personalità e della sua lunga permanenza
nel mondo della politica, è spuntato a un tratto un presunto miglioramento
della nostra posizione in una non specificata classifica dei comuni italiani. Si
è scritto circa il raggiungimento di «un’immagine nazionale invidiabile» – perdonate,
ma preferisco non citare la fonte. (E poi: invidiabile da chi, dai lanuseini, i
riminesi, i bassanesi, gli idruntini? Gli ultimi sono compaesani di Carmelo
Bene). Ho invece provato più volte e senza successo a deviare gli avezzanesi
dai loro sogni di gloria: questo posto non può sperare in avanzamenti di sorta.
Perché?
Ripeto:
perché siamo troppo pochi; ho
ascoltato un mesetto fa – una radio musicale
su un canale televisivo, dal barbiere – l’espressione «paesino di 80mila
abitanti» – quasi il doppio di noi – e mi è rimasta impressa nella mente. È
bene non dimenticare che il nostro agglomerato urbano tra l’altro è lontano dai
flussi, dai circuiti che contano. (Più di cinque, dieci anni fa).
Non
possiamo attrarre lavoratori, gente da fuori in generale perché non abbiamo la complessità produttiva di una grande città.
Nelle città italiane con oltre un milione d’abitanti si riesce a fare di tutto
perché i vari ambienti, fanno interagire le figure professionali più diverse e
disparate; quelle mancanti sono importate a tempo determinato o per un’intera
carriera. (Sono presenti le università, le accademie, i politecnici e le scuole
più diverse nelle grandi città).
Vi è
poi un altro dato da non sottovalutare, la
dimensione del mercato. Un semplice esempio. Nella Marsica devi sputare
sangue per vendere cento copie di un volume mentre chi abita a Roma o a Napoli con
la stessa fatica, ne piazza almeno cinque volte tanto.
Non
è perciò un caso se noi attraiamo manovalanza scarsamente specializzata; esportiamo
laureati e importiamo badanti, venditori ambulanti, colf, al massimo
braccianti. (Mal comune, mezzo gaudio:
è una caratteristica dell’Italia negli ultimi lustri. Purtroppo). I recenti
dati indicano che la disoccupazione diminuisce nei grandi centri e cresce nei
piccoli; le percentuali sugli expat
nell’ultimo anno (Rapporto Italiani nel
mondo, Fondazione Migrantes), danno i giovani abruzzesi… in ottima
posizione. A questo si aggiunga la leggera flessione della popolazione regionale
negli ultimi due anni...
(Expat significa persone che non
finiscono più nella periferia della Capitale o a Milano come un tempo, bensì a
migliaia chilometri di distanza da noi).
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