[…] Gli italiani di oggi sono molto
somiglianti a quelli che s’incontra negli scritti di Giacomo Leopardi, quando
il Regno d’Italia era di là da venire, a quelli raffigurati nelle opere di Giuseppe
Verdi che ha visto tale regno nascere: c’è davvero poco di «cantonale», di
«isolato» nel loro carattere.
Nel costruire l’immagine regionale, si
è tenuto conto solo delle descrizioni benevole di noti personaggi mentre sono
stati scartati gli studi sociologici che hanno descritto la natura clientelare
del voto alle elezioni. È stato messo da parte anche lo scatto del naturalista
che ha mostrato davvero una vallata, preferito a un autore noto al grande
pubblico che dello stesso luogo, ha casomai inquadrato solo un albero
solitario; ha subito lo stesso destino, quegli studi antropologici che hanno
raccontato il familismo di stampo mafioso che permea la vita sociale degli
abruzzesi, tipica di altri popoli del Mediterraneo. Tarda a essere ammainata la
bandiera dell’«isola felice»: la ricostruzione del capoluogo regionale (2009),
gli appalti a essa legati sono stati l’occasione a favore della criminalità
organizzata per entrare definitivamente in Abruzzo mentre lo spaccio di
sostanze stupefacenti sulla costa adriatica è un motivo per rimanerci; tale
ritardo purtroppo favorisce la complicità d’imprenditori e amministratori
locali.
Tutto ciò dipende non solo da alcune
lacune di cultura generale caratteristiche anche nel resto della Penisola,
quanto del provincialismo, nella particolare incapacità di autocoscienza
derivante probabilmente dal risiedere in una regione che vive da decenni di
assistenzialismo, nella vasta periferia italiana lontana dai centri di potere.
Prendo l’ottocentesco «Abruzzo forte e gentile», inconsapevolmente donato da un
forestiero: serve ancora la forza, ai nostri giorni? Non sono più utili delle
qualità come la potenza che serve a procedere spediti e la resilienza che
permette di sopportare i momenti critici? Nell’anno e mezzo trascorso a Milano,
ho ascoltato numerose volte dai locali una sorta di litania tesa a marcare la
distanza con la mia regione d’origine: «Noi lavoriamo…». Era essa una frase
certo più spendibile del nostro «forte e gentile» in quelle occasioni
confrontando i tassi di occupazione: la Lombardia svettava su di noi, già da
allora, per undici punti percentuali in più. (Tralascio il mero slogan «Abruzzo
Regione Verde d’Europa»). La narrazione di noi stessi è tradizionalmente povera
ed elaborata pochissimo nel volgere dei decenni; ciò che raccontiamo di noi
finisce per non emozionarci, mobilitarci, unirci ed è tipica di una società
pressoché immobile, in una zona della Penisola avviata al declino. A livello di
mentalità lo spartito che va per la maggiore – anche nel resto d’Italia,
purtroppo –, è lo stesso suonato ottanta, novanta anni fa, tanto per citare
anche il nostro Ennio Flaiano. (1/2)
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