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the money). Il secondo è controverso; premetto: ignoro come siano realmente
andate le cose, né posso ricostruirlo. Sembra a qualcuno che Crescenzo Presutti
abbia invitato una trentina di commercianti che lo contestavano per la sua politica
delle piste ciclabili ad abbandonare Avezzano; lui ha smentito. Nella mia testa
un po’ perversa immagino che il nostro assessore all’Ambiente, pressato
dall’informazione locale poco amica, abbia perso le staffe e pubblicato
veramente il contenuto contestato. (Su Facebook non sulla carta intestata del
Comune, è bene ricordare). Riprendo con una variazione il gioco del pezzo
precedente.
Non avrei scritto in ogni caso una cosa
del genere, anche se riferita a un gruppo ristretto di commercianti
considerando le differenze esistenti tra loro e spiego il perché. Parto da un
comunicato diffuso a fine luglio – non interessa da chi –, si leggeva: «siamo
più di 100 commercianti con oltre 3000 lavoratori». Nascondeva qualcosa di
sostanzioso quel dato – immagino che mancasse anche uno zero.
Negli anni Ottanta, si è cominciato a
parlare di delocalizzazione. Di che si trattava? Qualcuno smontava una fabbrica
che dava lavoro a 200, 300 operai e la trasferiva in un altro Paese lontano migliaia
di chilometri, dove il costo della manodopera era almeno la quarta parte di
quella italiana – senza parlare dei vari contributi. (Ripeto: smonto una fabbrica non un orologio a cucù). Un
commerciante ha senz’altro meno problemi
a cambiare zona, città o regione rispetto a un industriale; l’esperienza
m’insegna che alcuni negozi del centro sono stati trasferiti altrove nell’ultimo
decennio, senza clamore. (In fondo, rimane giusto qualche scatolone dopo i
saldi). Non sempre è così; perché qualcuno è pressoché impossibilitato ad allontanarsi
per cercare una posizione migliore, come hanno già fatto altri? Per il semplice
motivo che chi ha acquistato il locale in cui lavora – o lo sta facendo –, non
può spostarlo neanche di un centimetro. Inoltre, difficilmente egli potrà
venderlo con l’ormai annosa penuria d’acquirenti in quella zona, né tantomeno
affittarlo alle cifre correnti – svantaggiose da un punto di vista del rapporto
qualità/prezzo. Che fare a questo punto? Anziché riconoscere – nonostante tutto
– di aver sbagliato a investire in una zona che avrebbe perso interesse come
succede comunemente agli spazi umani
(risicati, molto estesi, così-così) fin dai primi insediamenti (8, 10mila anni
fa), si gioca d’attacco complice la diffusa mentalità omertosa. Una volta
compreso che combattere lo sfoltimento al centro nel breve-medio periodo è come
prendere a schiaffi il vento – di là delle amenità raccontate alle testate
giornalistiche –, si prova a scaricare i propri problemi privati sulla
collettività (spazi, casse comunali).
Più di uno sta certo difendendo
un’attività – io non ci metterei la mano sul fuoco quanto ai dipendenti –, ma
anche la propria roba; c’entra di mezzo lo stipendio della commessa ma anche la rendita immobiliare. M’interessa poco
il denaro pubblico fatto affluire dalle parti di piazza Risorgimento sotto
Natale e nel periodo estivo: un locale per guadagnare di più, deve lavorare di
più. (Rendita = fare quattrini senza muovere un dito).
Una novità risiede nell’arruolare i
residenti nelle proprie rivendicazioni, come si è detto. Qualcuno come me e chi
passa massimo otto ore al centro – nemmeno tutti i giorni della settimana, né
tutti i dodici mesi dell’anno –, non
vogliono la stessa cosa, come ho già scritto. (Non abbiamo gli stessi
interessi – si può solidarizzare, per carità).
Bisognerebbe anche far capire al
privato che acquistare un locale o pagare un affitto nel Quadrilatero non porta
a nessun diritto illimitato sullo spazio pubblico circostante la sua attività, anche
ad Avezzano.
Ha dimostrato finora d’avere fegato il
nostro assessore all’Ambiente, una caratteristica poco comune in città. Provo a
raschiare il barile, le prossime volte. (2/2)
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