sabato 4 agosto 2018

Notizie che non lo sono 2

(Follow the money). Il secondo è controverso; premetto: ignoro come siano realmente andate le cose, né posso ricostruirlo. Sembra a qualcuno che Crescenzo Presutti abbia invitato una trentina di commercianti che lo contestavano per la sua politica delle piste ciclabili ad abbandonare Avezzano; lui ha smentito. Nella mia testa un po’ perversa immagino che il nostro assessore all’Ambiente, pressato dall’informazione locale poco amica, abbia perso le staffe e pubblicato veramente il contenuto contestato. (Su Facebook non sulla carta intestata del Comune, è bene ricordare). Riprendo con una variazione il gioco del pezzo precedente.
Non avrei scritto in ogni caso una cosa del genere, anche se riferita a un gruppo ristretto di commercianti considerando le differenze esistenti tra loro e spiego il perché. Parto da un comunicato diffuso a fine luglio – non interessa da chi –, si leggeva: «siamo più di 100 commercianti con oltre 3000 lavoratori». Nascondeva qualcosa di sostanzioso quel dato – immagino che mancasse anche uno zero.
Negli anni Ottanta, si è cominciato a parlare di delocalizzazione. Di che si trattava? Qualcuno smontava una fabbrica che dava lavoro a 200, 300 operai e la trasferiva in un altro Paese lontano migliaia di chilometri, dove il costo della manodopera era almeno la quarta parte di quella italiana – senza parlare dei vari contributi. (Ripeto: smonto una fabbrica non un orologio a cucù). Un commerciante ha senz’altro meno problemi a cambiare zona, città o regione rispetto a un industriale; l’esperienza m’insegna che alcuni negozi del centro sono stati trasferiti altrove nell’ultimo decennio, senza clamore. (In fondo, rimane giusto qualche scatolone dopo i saldi). Non sempre è così; perché qualcuno è pressoché impossibilitato ad allontanarsi per cercare una posizione migliore, come hanno già fatto altri? Per il semplice motivo che chi ha acquistato il locale in cui lavora – o lo sta facendo –, non può spostarlo neanche di un centimetro. Inoltre, difficilmente egli potrà venderlo con l’ormai annosa penuria d’acquirenti in quella zona, né tantomeno affittarlo alle cifre correnti – svantaggiose da un punto di vista del rapporto qualità/prezzo. Che fare a questo punto? Anziché riconoscere – nonostante tutto – di aver sbagliato a investire in una zona che avrebbe perso interesse come succede comunemente agli spazi umani (risicati, molto estesi, così-così) fin dai primi insediamenti (8, 10mila anni fa), si gioca d’attacco complice la diffusa mentalità omertosa. Una volta compreso che combattere lo sfoltimento al centro nel breve-medio periodo è come prendere a schiaffi il vento – di là delle amenità raccontate alle testate giornalistiche –, si prova a scaricare i propri problemi privati sulla collettività (spazi, casse comunali).
Più di uno sta certo difendendo un’attività – io non ci metterei la mano sul fuoco quanto ai dipendenti –, ma anche la propria roba; c’entra di mezzo lo stipendio della commessa ma anche la rendita immobiliare. M’interessa poco il denaro pubblico fatto affluire dalle parti di piazza Risorgimento sotto Natale e nel periodo estivo: un locale per guadagnare di più, deve lavorare di più. (Rendita = fare quattrini senza muovere un dito).
Una novità risiede nell’arruolare i residenti nelle proprie rivendicazioni, come si è detto. Qualcuno come me e chi passa massimo otto ore al centro – nemmeno tutti i giorni della settimana, né tutti i dodici mesi dell’anno –, non vogliono la stessa cosa, come ho già scritto. (Non abbiamo gli stessi interessi – si può solidarizzare, per carità).
Bisognerebbe anche far capire al privato che acquistare un locale o pagare un affitto nel Quadrilatero non porta a nessun diritto illimitato sullo spazio pubblico circostante la sua attività, anche ad Avezzano.

Ha dimostrato finora d’avere fegato il nostro assessore all’Ambiente, una caratteristica poco comune in città. Provo a raschiare il barile, le prossime volte. (2/2)

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