venerdì 30 agosto 2019

Naked 2

Ho ironizzato più volte, in questo blog, sulla scelta d’intitolare l’asilo delle mie parti a un esemplare di Ursus arctos marsicanus. Chi aveva avuto quell’idea probabilmente salmodiava: Ce n’est qu’un début, continuons le combat! È andata proprio in quel modo, per quello che sto scrivendo, negli ultimi mesi. (La sto tirando per le lunghe anche perché molti sono tuttora stupiti per la mia posizione, al riguardo).
Nella vicenda che sto smontando, ricorre un paio di equazioni: albero = storia, albero = identità. Prendo un paio di brani a caso, dallo stesso comunicato. «Piazza del Mercato va tutelata come paesaggio culturale dal valore storico e identitario che viene rappresentato proprio dalla presenza del filare arboreo storico» e «i grandi alberi rimasti rappresentano la storia di una città», Conalpa 13 agosto 2019.
La storia d’Avezzano è perciò rappresentata da alcuni vegetali. Ammesso che sia vero, ma non lo è: come può un avezzanese digerire una cosa del genere e poi addirittura raccontarla in giro ai quattro venti? Utilizzarla per una campagna pubblicitaria? (Torino è in buona sostanza ignorata per la sua invidiabile quantità di spazi verdi mentre per la Juventus e molto altro…)
Vado per ordine. Non è messa proprio così la storia continentale, né quella locale: gli alberi compaiono nella città europea, insieme ai marciapiedi, nel Settecento, ad Avezzano due secoli più tardi – nella ricostruzione seguita a un disastroso terremoto, altrimenti...
Raccontano davvero la storia di una città, uno o più alberi, per di più, ornamentali? Rappresentano poco o niente nel nostro caso perché la loro messa a dimora è successiva al tracciamento, alla costruzione del nuovo centro direzionale. (Troviamo noi alberi nelle strade della periferia, la parte di città che ha ripreso per prima a vivere dopo il citato terremoto? No). Dice invece molto della nostra storia recente la pianta ottocentesca adottata nel Quadrilatero, l’asse municipio-stazione ferroviaria. (Qualcuno obietterà: come la mettiamo con «Torlonia», le attività legate all’agricoltura, le fabbriche e gli opifici prima del 1915?)
Prima di tutto questo, vi è però almeno un millennio di storia della città europea, da cui discende la forma dei nostri insediamenti. È stata perciò giocata in modo dilettantesco la (loffia) carta dell’identitarismo in questa vicenda. Mi spiego. Fu distrutto il mercato coperto, da un’amministrazione comunale, decenni fa; era una struttura che separava – costituendola piazza del Mercato da una strada statale. È quello un esempio clamoroso di storia buttata alle ortiche senza rifletterci minimamente, da parte degli avezzanesi. I compaesani furono quasi tutti contenti; molti degli odierni «indignati» contro il taglio degli alberi – 1500 secondo Il Centro dello scorso 25 agosto –, furono appagati da quello sventramento.
In questo periodo mi trovo tra le mani un libro acquistato l’anno passato (V. Emiliani, Roma capitale malamata, 2018). Nel volume sono citati degli sventramenti operati nella Capitale e raccontati da diversi autori. La pletora di sedicenti «storici locali» e «cultori di storia locale», non è stata finora capace – a distanza di quasi quarant’anni e l’avvicendamento di diversi sindaci –, di scrivere mezza parola su quella vergognosa vicenda. (Fa tenerezza chi pubblica qualche vecchia fotografia in bianco e nero di quel posto).

Gli antropologi raccomandano di non dimenticare che ogni identità, è una costruzione.

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