Vale lo stesso discorso per
i cosiddetti intellettuali. Ci vuole del tempo e dell’impegno per licenziare un
qualsiasi saggio (musica, storia, archeologia, letteratura, eccetera); alla
fine, se uno crede in ciò che è stato capace d’imbastire, va da un editore
degno di tale titolo o meglio ancora, di suo gradimento. Può andar bene o si
può vedere la propria opera rifiutata. Si stampa per proprio conto nel caso peggiore
– a proprie spese. Si prova in tal caso a diffondere il più possibile nella
Penisola le proprie elaborazioni; ci si confronta con il mercato, al bancone
della libreria più che correre dietro all’assessore o al proprio istituto di
credito per farsi scucire i quattrini per saldare le spese di tipografia sostenute.
(Le copie vendute in tal caso, resteranno a prendere polvere per decenni in
qualche scantinato). I saggisti del tempo andato, avevano il vezzo di portare personalmente
– in modo plateale – i loro volumi in libreria, giusto per tenere occupato per
anni uno spazio. (Veder sbiadire la costa o la copertina di un libro invenduto era
invece un effetto indesiderato). Qualcuno faceva finta di stizzirsi quando
capitava per caso nella cartolibreria di riferimento e s’informava sulle vendite;
scuoteva la testa: «Non c’è cultura, non c’è cultura…», neanche se alla Rizzoli
di Roma o alla Feltrinelli di Milano avessero fotografato code di persone
smaniose di acquistare le sue pubblicazioni. Lo stesso indugiare sul
manoscritto o sulla tela impiastricciata dall’impiegatuccio che scopriva verso
i quarant’anni di possedere delle doti artistiche, finalizzato alla stesura di
una presentazione o di una recensione – ripetuto quattro-cinque volte l’anno
per decenni –, indicava la mancanza di un progetto di vita o come minimo, di
una direzione. È stato tempo sottratto alla lettura dei classici e alla
scrittura; anni sprecati indubbiamente, ammesso che qualcuno volesse spingersi
oltre la chiostra di questi monti. Molti di loro leggevano i libri della
biblioteca (scolastica, comunale, regionale) o quelli stampati e portati in
dono dagli speranzosi clientes – ne
risentivano le bibliografie. Ignoro se esistesse qualche interesse recondito anche
dietro al pianoforte verticale inutilizzato nel salotto o all’ora di tennis a
settimana – solo in estate. (E’ stato una sorta di blasone per decenni la
frequenza del ginnasio o addirittura del liceo classico. In proposito: le
scuole superiori hanno rappresentato una sorta di smistamento e trampolino per le
attività culturali locali – per chi ne ha voluto approfittare – nemmeno fossero
facoltà universitarie, un conservatorio o un’accademia di una grossa città).
Oggi invece si lavora sul personaggio più che investire su se stessi o sul
prodotto che si vuol mettere in circolazione. Un paio di mesi fa, scrivevo del
tempo andato: «Chi assumeva pose da artista o da intellettuale possedeva almeno
un’infarinatura delle cose di cui si occupava, nel tempo libero» e tutto ciò mi
ha fatto dimenticare la spocchia di tanti, a distanza di anni. 3/8
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