Un amico mi ha inviato un
post apparso su Facebook per confrontarlo con il finale di uno mio. È bene
precisare che ciò che a lui importava era un pezzo del mio post scriptum: «si è
spento uno dei miei punti di riferimento negli ultimi quarant’anni e passa».
(Non vi era bisogno di specificare nome e cognome quel giorno). Era un post
cattivello sul piemontese appena scomparso. Ho trovato anche ipocrita quello
scritto perché non si può dispiacersi della morte di qualcuno con cui non si è
parente, amico o conoscente; con cui non si è mai avuto a che fare e di cui soprattutto,
non si ha una buona opinione. (In simili situazioni è facilissimo incrociare nel
web lodi sperticate o fango a palate mentre è raro trovare persone che provano
ad argomentare).
Ho passato due-tre giorni a
leggere numerosi articoli riguardanti la morte di una giornalista Rai (M. G.
Capulli), lo scorso ottobre. Qualcuno chiederà a ragione: non bastava il primo?
È stato in realtà il primo
che io ho scorso frettolosamente o meglio i suoi commenti, che mi hanno spinto
a cercarne degli altri. Si trattava di scritti generalmente stringati a
differenza dei classici sproloqui, uno su dieci, un po’ malevolo; la loro
maggioranza conteneva un «R.I.P.» e la terza parte di quelli benevoli, era terminata
da un: «condoglianze alla famiglia». Come ci si comporta nella vita di tutti i giorni in casi del genere? Si esprimono le
condoglianze ai congiunti, agli amici stretti casomai.
È stato un brevissimo
periodo in cui ho intravisto – dopo alcuni decenni – un’Italia insolitamente
educata, gentile e serena.
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