Giorni fa ho parlato della «politica»
da noi ancora in vacanza, mentre a livello regionale si pensava già alle
Politiche dell’anno prossimo. Ho parlato giusto en passant dei numerosi roghi in Abruzzo – anche se ho qualche parente
che abita di fronte al monte Morrone.
Sono stati i governanti
regionali a fabbricare la narrazione da cui sono poi fiorite espressioni come:
«una regia unica» a proposito dei vari incendi innescati da persone esperte e
che conoscono bene le zone in cui agiscono, la richiesta di una «commissione
parlamentare d’inchiesta», addirittura della «commissione Antimafia». In molti
hanno purtroppo suonato o improvvisato su questo spartito; io vedo la situazione
in modo diverso.
Per cominciare. Negli
ultimi nove, 10mila anni gli uomini
hanno bruciato gli alberi per ricavare dello spazio utile (pascolo,
agricoltura, città). Sono cambiate un po’ le cose da allora, ai nostri giorni:
s’incendiano i boschi anche per altri motivi.
È in auge da decenni
l’espressione «stagione degli incendi» ed è perciò almeno fuorviante scrivere com’è
successo in Abruzzo, di emergenza, piano preordinato, terrorismo, rete di
delinquenti, eccetera. WWF Abruzzo parla di una media di 7,4 incendi nei boschi al
mese durante il 2016. (Legambiente ha ricavato che solo il 60% dei roghi in
Italia è di natura dolosa). I motivi di chi appicca gli incendi, sono diversi
tra loro. (Le forze dell’ordine pizzicano di quando in quando qualche sparuto
piromane privo di qualsiasi rapporto con «colleghi» di un altro comprensorio,
di un’altra regione). È perciò risibile oltre all’idea del grande complotto
anche il presunto attacco allo Stato: è sufficiente confrontare il numero dei
corregionali impegnati in attività armate
a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta con quello dei possibili piromani di
quest’estate – non più di uno per ciascun incendio, per carità. (Ve ne sono
stati 216).
Vengo adesso alle «mani
esperte» che incendiano o alle cosiddette tecniche raffinate impiegate. Come si
fa in realtà? Non si brucia certo un albero alla volta, ma si danno alle fiamme
il sottobosco che però collega tutta
la vegetazione di una zona; non ci vuole molta intelligenza per capirlo ma è
sufficiente entrare in un bosco una sola volta quando non c’è neve. (Per
qualcuno può essere un problema far ardere tutto nel più breve tempo
possibile). Qual è il periodo dell’anno più proficuo per la «fabbrica del
fuoco»? Il profilo dell’incendiario che è stato tracciato in quest’occasione è talmente
minuzioso da essere inutilizzabile: nasconde più che illuminare.
A tanto allarmismo nei
primi giorni è seguito l’attuale silenzio di tomba. Si può incendiare una
montagna per far avviare un cantiere di rimboschimento, per bloccare una zona
edificabile (quindici anni), per ricavare una zona adatta al pascolo, come vendetta
contro un divieto di caccia negato, per un semplice sfregio a un parco (Cfr.: monte
Salviano 1993) e altro. Il fuoco sembra essere divenuto negli ultimi anni uno strumento
di pressione impiegato in modo agevole da soggetti
diversi – secondo me il punto è proprio questo. (Di là del fatto che in
alcuni casi chi dichiara la guerra poi vuol fare anche la pace, nel senso: accordarsi). Bisogna perciò devastare
questo intreccio di rapporti perversi tra singoli, gruppi e parti dello Stato –
nelle varie combinazioni. (Un sacco di persone). Non è un gioco da ragazzi ma
soprattutto: si fa in tanti, è un fatto collettivo.
Si tratta nell’immediato di
valutare i singoli casi da parte
della magistratura e non fare di tutta l’erba, un fascio com’è avvenuto presso
il mondo della politica e di riflesso, in buona parte dei mezzi d’informazione;
non si può fare il pesce in barile per 364 giorni l’anno e poi ci si riveste
nel ruolo della sentinella della democrazia. (Mi chiedo: perché non avviare da
parte della Regione almeno degli interventi capaci di prevenire alcuni tipi di
rogo nei nostri boschi?)
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