Ho scritto di recente «Altri appuntamenti
annuali: si è finalmente materializzato qualcun altro che vorrebbe allagare
nuovamente il Fucino, ma solo nella zona del Bacinetto», 19 agosto 2017. Mi riferivo a un convegno in cui
si parlava anche di altro, ma esso non aveva come sede Trasacco, Pescina o Luco
dei Marsi come ci si sarebbe aspettato bensì Tagliacozzo nei Piani Palentini, il
26 agosto 2017. Qualcun altro ha irriso su Facebook, a quanto mi è stato
riferito. (Ne ha trattato in più occasioni Il
Centro – nel senso: il cartaceo e chi legge non può controllare
istantaneamente – e ciò che scrivo ne risentirà).
M’interessa più che altro
chi ha preso sul serio la notizia e il convegno stesso: che cosa lega tutte queste
persone? (Segnalo in proposito gli interventi di Kathia Alfonsi in Riallagamento del Fucino, secco no da parte
dell’assessore Alfonsi, in «TerreMarsicane» 23 agosto 2017 e del presidente
del Consiglio regionale, Di Pangrazio: non possiamo scherzare con il Fucino, in «Acra» 25 luglio 2017).
Che ne sappia io – potrei
sbagliarmi – si parla di tal idea da quasi mezzo secolo. Si trova nel web giusto
un accenno agli anni Novanta, «E assai famoso più per quelle che […] chiamano
“spallonate” (come la proposta di riallagare il Fucino», in A. De Nicola, Spallone: una dinasty marsicana, in «Il
Messaggero» 15 aprile 2000. Io registro una sorta di polarità nei vari
interventi in questo lungo periodo: abbiamo da una parte il restauro dell’area umida, dall’altra il restauro della
condizione climatica risalente alla
prima metà dell’Ottocento, almeno nella Piana.
Perché è un’idea, mancano
dei dati su cui lavorare per
svilupparla, progettarla – anche per comunicarla. Giorgio Giannini «ha
illustrato come fino al 1865 circa, prima che il progetto del principe Torlonia
prosciugasse il lago, le condizioni climatiche non fossero così [estreme] come
al giorno d’oggi e non soltanto nell’area marsicana», in T. Di Fiore, Soluzioni per la crisi idrica del Fucino,
tante le proposte nel convegno di Giannini, in «MarsicaLive» 27 agosto
2017. Bisogna tener conto che la raccolta di dati scientifici autorevoli sulla
temperatura è posteriore al
prosciugamento del lago e a maggior ragione alla situazione ante operam che si vorrebbe restaurare. (Domanda:
si tratta proprio di condizioni «estreme»?). Uno specchio d’acqua minore, quali altre caratteristiche
dovrebbe possedere per mitigare il clima, raggiungere le condizioni climatiche
di un secolo e mezzo fa in quest’altopiano e non solo?
In mancanza di dati sulle
temperature si ripiega sulla presenza della vite e dell’olivo nella conca, è
data per certa da vecchi libri – veneratissimi da noi. E noi ci fidiamo. Si
afferma ancora che non si coltiva più né l’uno né l’altro dopo il prosciugamento
del Fucino, nel senso: a causa dello
stesso. (A proposito: quanto era l’ammontare della produzione fucense di vino e
di olio?). Io ho dei tralci a una decina di metri in linea d’aria da dove sto scrivendo,
residui di un pergolato più ampio e posso segnalarne degli altri ad Avezzano;
era in realtà una maniera d’ornare gli ingressi delle case singole fino a tutti
gli anni Cinquanta, c’era poi anche qualcuno che sistemava un pergolato
nell’orto – a distanza di ottanta, novant’anni dal prosciugamento. (Sortiva da
essi un vino notevolmente acidulo per l’auto-consumo – era servito anche agli
amici e ai conoscenti, purtroppo). M’è inoltre capitato di scrivere: «Io segherei senza
problemi di coscienza gli “olivi” in piazza Risorgimento», 23 agosto 2017. (Secondo Coldiretti: «Oltre il
46esimo parallelo in Valtellina si trova l’estrema frontiera nord dell’olio
d’oliva italiano. Negli ultimi dieci anni la produzione è passata da zero a
sedici mila piante su oltre 50 mila metri quadrati di terreno», in A. Gramigna,
Baruffi e la frontiera dell’ulivo più a
nord d’Italia: «Mi davano del pazzo, ho piantato lo stesso», in
«IlCorriereDellaSera» 24 agosto 2017). Negli ultimi trent’anni sono quasi
scomparsi gli alberi da frutta piantati ad Avezzano nel periodo post-terremoto
(1915) ma sono stati più che rimpiazzati da numerose piante ornamentali:
c’entra ancora il perfido Alessandro Raffaele Torlonia (1800-86)? Era indispensabile
starsene a spulciare da vecchi libroni che raccontano minuziosamente il nostro
mondo nei secoli passati, per avere delle semplici informazioni di botanica? Dove vado a cercare volendo
conoscere l’areale di una pianta o di un animale?
Passo all’altra polarità (wetland). L’esperienza mi ha insegnato
che in tempi recenti sono state manomesse alcune zone umide dalle nostre parti
e penso d’essere stato tra i pochissimi a parlarne – ne ho trattato giusto a
livello di cronaca. Ritengo perciò che i fucensi siano per niente interessati a
restaurare una parte del loro ecosistema, del loro paesaggio, ammesso e non
concesso che tutto ciò possa vedere la luce un giorno. Un salto nell’Agro Pontino
o a Beemster (NL) per ripetere una simile proposta? (Oddio, nel secondo caso bisognerà
litigare un po’ con l’UNESCO).
Negli ultimi tempi è stato
aggiunto il tema dell’irrigazione dei campi – ignoro se per rendere più
realistico e appetibile il resto – ma non si è registrato niente di nuovo rispetto
a quanto non abbia già affermato per decenni la politica e di riflesso le
associazioni di categoria. (Nel senso: non si toccano né i consumi né gli
attuali sprechi di acqua).
Trattandosi di un’idea, non
si accenna all’impatto dell’opera cui essa è riferita; essa favorirà probabilmente
alcune specie animali e vegetali e certo ne allontanerà delle altre: quali? Quanto
vino e quanto olio – di là da chi dovrebbe produrli e della loro qualità – si
prevede di ricavare dopo l’allagamento del Bacinetto? Si sono fatti due conti
sulle attività e gli abitanti da spostare, sulle persone da risarcire?
Risalgo verso l’inizio del
mio pezzo per meglio definire l’humus
su cui si sviluppano periodicamente tali conferenze. Vi è un tratto molto
italiano nel mettere in ombra l’interesse pubblico per evitare d’intaccare,
seppure in lontananza, interessi privati – tipico del familismo amorale –, perciò
nessuno propone ai coltivatori di limitare il consumo di acqua legato sia al
tipo di colture sia alla quantità di «chimica» impiegata nella produzione. (Se
n’era già discusso da noi negli anni Ottanta del secolo scorso, poi vi è stato
un referendum nazionale dedicato nel 1990). Come s’è denunciato, si ha un vago
concetto di area umida ed è tempo perso tirarla in ballo per una qualsiasi
vertenza. Vi è infine l’elemento locale su cui mi soffermo. Mi è stato facile
mostrare come manchi da noi a livello collettivo un tozzo di conoscenza della storia
locale, di quella recente e perfino dell’attualità. (Anche della cultura
materiale). Al contrario è in uso un ricco repertorio, composto di dicerie, storia
inventata e leggende fatte divenire senso comune nei decenni soprattutto da un
plotoncino di vecchi e nuovi sedicenti storici, storici locali e cultori di
storia locale. Ci si domanda perciò a distanza di quasi centoquarant’anni – nonostante due guerre mondiali e un terremoto
particolarmente distruttivo –, se il prosciugamento del lago Fucino sia stato o
no un affare per le popolazioni fucensi; ciò che fa cadere le braccia è
scoprire che molti ritengono una sciagura tale bonifica, ma anche ciò fa parte
del fardello culturale locale: il rifiuto della modernità, del nuovo tout court. (Cose che capitano quando in
una zona si vive generalmente d’assistenzialismo statale e non vi è alcun
bisogno di progettare per sé o per gli altri).
Rispunta intanto e come per
incanto l’invaso di Amplero…
(Il Martello del Fucino 8, settembre 2017; v. o.)
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